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Restaurare gli abiti non significa renderli indossabili

Luana De Micco

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Il Musée des Arts Décoratifs è uno dei pochi musei che possiede anche un laboratorio specializzato nel restauro dei tessuti. È in questi locali che sono stati restaurati cinque abiti tra i più significativi della collezione, sui quali non si era mai intervenuti prima e che per la loro fragilità non sono mai stati esposti.

Saranno presentati per la prima volta dal 22 settembre al 22 ottobre. Si tratta di una rara cappa del XVI secolo di probabile fattura italiana, un sontuoso abito del Settecento indossato alla corte di Maria Antonietta, un’insolita capeline in fibra vegetale datata 1780-1790, un abito da sera della maison Worth del 1893-94 e un abito «Spi» di Paul Poiret del 1922.

Il restauro è stato portato avanti da uno staff di cinque restauratrici coordinato da Emmanuelle Garcin: «Il museo ha una sua deontologia, ogni intervento deve essere leggero e reversibile, ha spiegato la responsabile del laboratorio di restauro. È per questo che non si effettuano operazioni di tessitura per riparare gli squarci ma si interviene per consolidare introducendo sul retro un tessuto di sopporto, di una fibra più vicina possibile all’originale, fissandolo con cuciture molto fini in filo di seta. Non c’è falsificazione. L’intervento del restauratore deve potersi distinguersi dall’originale. L’obiettivo non è che l’abito possa essere nuovamente indossato, bensì interromperne il degrado».

Per il restauro (finanziato da La Vallée Village, che non ha reso noto l’ammontare dell’investimento) ci sono voluti sei mesi. Per ognuno degli abiti le restauratrici hanno dovuto mettere a punto una tecnica ad hoc. Per la fragile capeline in fibre di ibisco, che presentava diverse lacune nella trama, «abbiamo dovuto letteralmente inventare la tecnica di consolidamento. La fase di studi è stata complessa, perché questo tipo di intervento non era mai stato realizzato prima, mentre il restauro in sé ha richiesto solamente due mesi».

Quattro mesi ci sono voluti invece per foderare interamente l’abito Poiret: «I ricami erano molto degradati e la stoffa presentava diverse macchie. Le abbiamo attenuate una per una lavorando al microscopio stereoscopico». La cappa, con importanti zone di usura, «ha dato problemi di manipolazione perché è ampia e pesante, ma molto fragile».

Sul velluto sono state rinvenute «le tracce di un ricamo tardivo, probabilmente un motto in latino». Gli abiti «ormai sono stati rimessi in condizione di essere prestati ed esposti, ha spiegato ancora Emmanuelle Garcin, ma solo a certe condizioni: per un massimo di tre mesi e con luce limitata a 50 lux. E dopo ogni mostra dovranno tornare nei depositi del museo per un periodo di riposo di due anni».

Luana De Micco, 16 settembre 2017 | © Riproduzione riservata

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