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Maurizio Cattelan al Centre Pompidou-Metz nel luglio 2024

© Revue Profane/Jonathan LLense/TheLink Mgmt. © Shigeru Ban Architects Europe et Jean de Gastines Architectes/Centre Pompidou-Metz

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Maurizio Cattelan al Centre Pompidou-Metz nel luglio 2024

© Revue Profane/Jonathan LLense/TheLink Mgmt. © Shigeru Ban Architects Europe et Jean de Gastines Architectes/Centre Pompidou-Metz

Maurizio Cattelan a tu per tu con il Pompidou in Lorena

Nella duplice veste di curatore e rettore della Scuola del Centre Pompidou-Metz l’artista ha inventato un abbecedario per una mostra è che un dizionario aperto, in cui ogni visitatore e ogni artista può riscrivere i significati

Centinaia di opere della collezione del Musée National d’Art Moderne del Centre Pompidou, che ha chiuso le porte per cinque anni di lavori, hanno lasciato Parigi per raggiungere il Centre Pompidou-Metz, che le ospita per più di un anno, dall’8 maggio al 2 febbraio 2027, nella mostra «Domenica senza fine». Un regalo eccezionale per il museo fratello della Lorena che in questo mese di maggio compie 15 anni. Nelle vesti inusuali di curatore troviamo Maurizio Cattelan (Padova, 1960), che con Metz ha già una storia, avendo partecipato all’allestimento della mostra su Arcimboldo nel 2021. È anche il primo artista a partecipare alla Scuola del Centre Pompidou-Metz aperta ai giovani della regione per l’anno scolastico 2024-25. All’artista padovano, che ha lavorato insieme a Chiara Parisi, direttrice del museo di Metz, e Philippe-Alain Michaud, conservatore al Musée National d’Art Moderne, è stato chiesto di selezionare dipinti, sculture, fotografie, installazioni, nell’immensa collezione del museo parigino e di creare un dialogo con alcuni suoi lavori, scegliendo gli abbinamenti

La selezione, sul tema insolito ed evocativo della domenica, è eclettica e comprende opere note, ma anche tante raramente esposte: opere di Francis Bacon e Jean Arp, Georges Braque e Victor Brauner, Giovanni Anselmo e Giorgio de Chirico, Miriam Cahn e Sophie Calle, le fotografie di Diane Arbus, Man Ray e Akram Zaatari, le maschere di André Derain, i disegni di Sandra Vásquez de la Horra, il muro dell’atelier di André Breton e il tavolo da scacchi di Marcel Duchamp, entrato nelle collezioni di recente. Di Cattelan sono esposti «Stadium» (1991) e «Mini-me» (1999), tra i primi lavori, ma anche opere più recenti, come «Kaputt» (2013), «Shadow» (2023) e «Comedian» (2019), la famosa banana attaccata al muro col nastro adesivo battuta all’asta da Sotheby’s per 6,2 milioni di dollari. È esposta inoltre la scultura «Gradiva» (IV secolo a.C.) prestata dai Musei Vaticani. La mostra, che occupa tutti gli spazi del museo firmato da Shigeru Ban, è suddivisa in 27 sezioni, ognuna per una lettera dell’alfabeto, più una lettera nuova, inventata per la sezione finale. Il progetto espositivo coinvolge le detenute del carcere femminile della Giudecca di Venezia, che l’anno scorso ha ospitato il Padiglione della Santa sede della Biennale d’Arte, alle quali è stato chiesto di scrivere testi originali ispirati ai titoli delle 27 sezioni. Maurizio Cattelan ha accettato di rispondere alle nostre domande.

Secondo quali criteri ha selezionato le opere del Pompidou e scelto gli accostamenti?
È stato come un interrogatorio! Ho provato a fare quello che Aby Warburg chiamava «Nachleben», una sopravvivenza delle immagini. Alcune opere si sono incontrate naturalmente con le mie. In questo labirinto, più che criteri, abbiamo cercato connessioni inaspettate. Come se stessimo componendo un atlante, non geografico ma emotivo, intuitivo, e inevitabilmente incompleto. Ogni accostamento è un cortocircuito. A Bologna, negli anni Novanta si poteva andare al Dams ad ascoltare Umberto Eco: credo che ogni immagine sia un testo in traduzione. E ogni traduzione è un tradimento necessario. Accostare le opere significa lasciare che i significati si scontrino e si rovescino. Come un abbraccio che a volte diventa una presa di kung fu.

Maurizio Cattelan, «Spermini», 1997. Courtesy Maurizio Cattelan’s Archive. Photo © Attilio Maranzano

Che rapporto ha con l’istituzione parigina e con la sua collezione?
Il Centre Pompidou è come una grande biblioteca visiva. Più che una relazione personale, ho sentito la collezione come una coscienza collettiva. Quando navighi nella collezione del Centre Pompidou, non entri in un museo, ma in un continente. È una geografia fatta di dipartimenti (arti plastiche e grafiche, design, architettura, cinema, fotografia, nuove tecnologie...) e di spazi vivi come la Bibliothèque Kandinsky, che è un continente a sé. Una collezione così ti costringe a capire che la parola «autodidatta» non è solo una dichiarazione sociale, ma una forma di responsabilità: significa imparare a guardare, ogni volta da capo, senza che nessuno ti garantisca che stai capendo davvero. Attraversare una collezione come questa, che va dall’inizio dal 1905 alle soglie dell’oggi, è come attraversare città sconosciute con la sola bussola dell’occhio. La collezione mi ha insegnato che cosa vuol dire guardare. È una collezione che non è un insieme di opere ma uno dei modi di raccontare il mondo. Ma ogni racconto, anche il più ricco, è fatto di scelte, e dunque di omissioni. I vuoti (la presenza delle artiste, delle voci marginali, dei linguaggi non dominanti) non sono soltanto lacune estetiche: sono segni storici della difficoltà che ha la libertà a diventare memoria. Interrogarli è un dovere, non per riempirli in fretta, ma per capire che cosa impedisce ancora oggi di vedere l’opera quando è fatta da chi non ha avuto il diritto di raccontare.

Come ha lavorato con Chiara Parisi alla curatela della mostra?
Con Chiara abbiamo lavorato per deviazioni, per illuminazioni improvvise, per test falliti e riunioni mancate. Come in certi romanzi corali, ognuno scrive un capitolo senza sapere esattamente che cosa farà l’altro, ma alla fine il libro esiste. E non poteva essere scritto diversamente. E poi, l’abbecedario inventato per la mostra è diventato un dizionario aperto, dove ogni visitatore, ogni artista, ogni detenuto che partecipa, può riscrivere i significati.

Che valore ha per un artista come lei il concetto di «domenica»?
La domenica è un giorno che non si capisce bene. È un giorno che non finisce perché non vuole scegliere che cosa essere. Come certe opere. La domenica mi fa pensare a due cose opposte che convivono: Totò in bianco e nero che dice cose che sembrano leggere e invece sono feroci. E poi quella strana malinconia che arriva quando tutto si ferma, ma tu no, tu resti lì, a sentire il tempo che scivola. Non siamo presi dal lavoro, ma nemmeno davvero liberi. E forse, in fondo, il titolo «Domenica senza fine» è anche un omaggio a «Ricomincio da tre», o a «Il giorno della marmotta». Ogni domenica ci dà una seconda possibilità, o almeno l’illusione che ci sia. Un po’ come nei film di Troisi, dove il tempo non è lineare, ma esitante, affettuoso e tragico insieme. È una domenica che si ripete, non per nostalgia, ma perché ogni volta ci dà, forse, la possibilità di cambiare il finale.

La mostra nasce anche dall’«opportunità» per Metz di accogliere molte opere della collezione parigina durante i lavori di ristrutturazione. Pensa che sia importante «decentralizzare» l’arte?
Sì, ma senza slogan. Non basta spostare le opere per cambiare le logiche. Bisogna spostare anche gli sguardi, i linguaggi, le gerarchie. Se questa mostra può contribuire a farlo, anche solo un po’, allora vale la pena. Le opere, quando viaggiano, imparano qualcosa. E anche noi.

Che cosa l’ha spinta ad accettare il ruolo di «rettore» della Scuola del Pompidou-Metz per la prima promozione?
La parola «scuola» mi ha sempre fatto paura, ma anche speranza. In questa scuola non ci sono voti né lavagne, ma corpi, idee, dubbi, parole. Ho accettato perché non dovevo insegnare niente, ma farmi accompagnare. Essere «rettore» qui significa seguire le domande. È una scuola che assomiglia più a una costellazione che a un edificio. Il fatto che sia rivolta a ragazzi e ragazze della regione, spesso lontani dai circuiti tradizionali dell’arte, rende il progetto ancora più bello. E, non c’è nulla di più serio che prendere sul serio chi sta imparando a nominare il mondo.

Chen Zhen, «Round Table», 1995. © Adagp, Paris, 2025. Photo: Philippe Migeat-Centre Pompidou, Mnam-Cci

Una parete dell’atelier di André Breton. © Centre Pompidou, Mnam-Cci. Philippe Migeat:Dist. Rmn-Gp. © Adagp, Paris, 2024

Luana De Micco, 04 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

Maurizio Cattelan a tu per tu con il Pompidou in Lorena | Luana De Micco

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