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La più sorprendente mostra del centenario alla Haus der Kulturen der Welt
- Francesca Petretto
- 14 marzo 2019
- 00’minuti di lettura


L’Università di Ife, in Nigeria, architetti Arieh Sharon, Eldar Sharon e Harlod Rubin. © Arieh Sharon digital archiv
Quartetto Bauhaus
La più sorprendente mostra del centenario alla Haus der Kulturen der Welt
- Francesca Petretto
- 14 marzo 2019
- 00’minuti di lettura
Francesca Petretto
Leggi i suoi articoliNella ricca serie di eventi che celebrano il centenario della nascita del Bauhaus di Weimar avvenuta nell’aprile del 1919, il progetto «Bauhaus Imaginista», cooperazione delle istituzioni di Weimar, Dessau e Berlino con Goethe Institut e Haus der Kulturen der Welt di Berlino, è forse il più interessante, organico e innovativo. Nel titolo rievoca il MIBI-Movimento internazionale per una Bauhaus immaginista 1954, ma contrariamente a quello, non si serve dell’aggettivo per evocare un mondo di fantasia e immaginazione, bensì per sottolineare il carattere corporeo, «creatore di immagini» di un movimento capace di contagiare tutto il mondo.
La mostra berlinese alla Haus der Kulturen der Welt (HKW) dal 15 marzo al 10 giugno è il suo punto di arrivo, il quarto, conclusivo capitolo (intitolato «Undead») di un viaggio svoltosi in giro per il mondo nel corso del 2018, dopo quelli di Kyoto-Tokyo-New Delhi («Correspondence»), Hangzhou-Mosca-Lagos («Designing life»), São Paulo-New York-Rabat («Learning From»). Quattro capitoli per quattro oggetti/prototipi made in Bauhaus: il Manifesto del 1919, un foglio pubblicitario di Marcel Breuer, un disegno di Paul Klee e un gioco di luci riflesse di Kurt Schwerdtfeger, scandagliati fin nell’intimo alla ricerca di risposte per i quesiti chiave della contemporaneità.
Un internazionalismo di ritorno che spiega la differenza fra diffusione e colonizzazione, per combattere ogni possibile tentazione di sciovinismo: disseminandosi in un mondo che le aveva di suo già influenzate, le idee del Bauhaus si sono decolonizzate, trasformate nei differenti contesti socioculturali delle terre di approdo, hanno generato nuovi linguaggi.
La mostra si avvale di una curatela senza rivendicazioni di paternità, davvero audace di questi tempi, perché capovolge il solito punto di vista: parla di terreno anziché di semi, di accoglienza e d’inclusione, nel rispetto dello spirito primigenio della Scuola weimariana e delle diverse, opposte correnti che in principio vi convivevano sorprendentemente in armonia.

L’Università di Ife, in Nigeria, architetti Arieh Sharon, Eldar Sharon e Harlod Rubin. © Arieh Sharon digital archiv