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Nei musei tira aria di rockstar

I cimeli riverniciati di patina culturale vanno più del Simbolismo

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Flaminio Gualdoni

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Dunque, la primavera prossima al Victoria & Albert ci sarà «The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains», mentre ancora circola «David Bowie IS», ora è al MAMbo, e sono appena trascorse «The Velvet Underground. New York Extravaganza» alla Philarmonie de Paris, Björk al MoMA e le pitturette patetiche di Bob Dylan qua e là. Qualche anno fa mi ricordo anche una roba museale sui Queen a Montreux, ma è la città dove avevano inciso molto (era esposto anche un vecchio banco di missaggio, per dire) e non so se in questo caso c’entra. Per non farci mancar niente son già lì che trafficano su Kurt Cobain a preparare una mostra sui «Kurt’s works and his art and his possessions».

Tira un’aria di rockstar al museo: che è sempre una faccenda di celebrazione pop in un contesto che si vuole aulico, ma comunque meno perniciosa di invenzioni improvvide come quella che aveva portato quattro anni fa le soirée patetiche «L’altra metà del cielo» di Vasco Rossi alla Scala. 

Dunque funziona così. Una grande istituzione fa l’occhiolino al pubblico vasto di quelli che hanno raggiunto una certa età e tira fuori dal baule i cimeli dei miti di quella gioventù, riverniciandoli di una patina culturale. Dato che ormai l’arte commestibile l’han finita tutta (ogni tanto qualcuno prova a parlare di Simbolismo e di Luca Signorelli invece che di impressionisti e Leonardo, ma viene respinto con vistose perdite), conviene non cercare altre pietanze e passare direttamente agli omogeneizzati, e si fa prima a culturalizzare queste cose qui che sperare che il cervello di qualcuno evolva davvero.

Dunque van bene i Velvet, che son pur sempre gente che trafficava con Andy Warhol il Grande Passepartout, e van benissimo i Pink Floyd, il prisma di «The dark side of the moon», la mucca di «Atom Heart Mother» e soprattutto il maialino Algie di «Animals», che anche uno fico davvero e corrosivo come Alfonso Cuarón  aveva messo già dieci anni fa, ne «I figli degli uomini», nella collezione del ministro delle arti con il David e Guernica. 

La mostra! la mostra! L’essenziale è fare la mostra, adesso. Oltretutto c’è un vantaggio. Il museo è una grande teca che disinfetta e congela, funziona come un’arca di reliquie. L’essenziale, diceva quello là che si chiamava Calvino e dalle nostre parti ancora adesso non è molto ben visto, è crederci, poi che sia un osso d’asino o di cane o di santo non importa. Si fa la fila, si paga l’obolo, ci si genuflette, si fan due conti su quanto può valere il proprio vinile di «The Wall» autografato (da Nick Mason, purtroppo) in copertina, ci si sente in regola con la condivisione del grande evento kulturale e si va al bar felici.

In effetti però, pensandoci un po’ di più mi dico un’altra cosa. Mi è capitato di sentir dire da gente che si presume autorevole che i testi di Guccini e Baglioni andrebbero messi nelle antologie poetiche insieme a Sbarbaro e Luzi (i quali, per sicurezza, ci si astiene dal leggere), e sentirmele girare. Poi di vedere nei musei grandi mostre di Versace e di Philippe Starck, e di inferocirmi. Poi, però, di imparare che i grandi paradigmi artistici «cólti» di oggi sono gente come Jeff Koons e Damien Hirst, e sorbirmi rassegne di video chiedendomi desolato perché questi pirla sì e gente come Chris Cunningham e Zbig, che sono videoclippari ma geniacci veri della visione, no. E allora, giusto per stare in tema, va bene va bene così: come cantavano i leggendari Pitura Freska, «oi ‘ndemo veder i Pin Floi».

Flaminio Gualdoni, 08 ottobre 2016 | © Riproduzione riservata

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