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Per la loro terza «Soirée Nomade» Triennale Milano e Fondation Cartier pour l’Art Contemporain hanno voluto dare «Carte blanche» a Olivier Saillard (Pontarlier, Francia, 1967), storico della moda, designer e curatore, già direttore del Musée de la mode de la Ville de Paris (che si apre nel Palais Galliera, l’edificio neorinascimentale voluto, alla fine dell’800, dalla ricchissima nobildonna genovese Maria Brignole Sale De Ferrari, duchessa di Galliera, per ospitare le sue collezioni d’arte) e ora direttore della Fondazione Alaïa e direttore artistico del brand J.M. Weston.
Sviluppata in due serate, il 2 e 3 febbraio nella Triennale Milano, all’interno della mostra di Ron Mueck, la Soirée Nomade di Olivier Saillard presenta venerdì 2 febbraio la sua ultima performance, «Moda Povera VI: les vêtements des autres-Milan», creata espressamente per Triennale Milano, nella quale si chiede a ogni spettatore di prestare a dieci modelle-performer che hanno fatto la storia della moda un indumento «d’affezione» proprio o di una persona cara, perché loro possano interpretarlo, animarlo, e renderlo «parlante» e (simbolicamente) prezioso con la gestualità tipica delle sfilate.
Se questo è l’ultimo progetto di Saillard, il giorno successivo va invece in scena la sua prima performance in assoluto, «Salon Couture» del 2006, mai più presentata da allora, in cui la famosa modella e ora attrice Violeta Sanchez, che fu la musa di Yves Saint Laurent e di Helmut Newton, non indossa ma racconta dettagliatamente abiti che oggi non esistono più. Proprio come accadeva un tempo durante le sfilate negli atelier di moda, quando ogni capo che usciva in passerella veniva anche scrupolosamente descritto dalla direttrice della sfilata. Insieme, è proposta «Moda Povera V: les vêtements de Renée», un omaggio alla madre di Olivier Saillard, presentato lo scorso giugno a Parigi alla Fondation Cartier. A lui chiediamo di raccontarci i modelli concettuali sottesi a questi suoi lavori.
Monsieur Saillard, c’è stato il Teatro Povero di Grotowski e c’è stata l’Arte povera di Germano Celant e dei suoi artisti. La sua Moda Povera può considerarsi «figlia» di questi movimenti?
Sì, lo spero proprio! Ho una grande ammirazione e riconoscenza per l’Arte povera. Credo che sia il movimento che ha dato più frutti nell’arte contemporanea. Nel caso della Moda Povera si tratta di lavorare su un format esistente: l’esatto contrario della moda di lusso. Noi qui lavoriamo sul «raro» più che sul lusso e queste mie azioni si propongono, poeticamente, come «archivi del banale».
Al di là del «debito» di entrambe con l’Arte povera, qual è la relazione tra le due azioni «Moda Povera VI: les vêtements des autres-Milan» e «Moda Povera V: les vêtements de Renée», presentata nel 2023 a Parigi e ora, nuovamente, a Milano?
«Moda Povera V» è stata concepita lo scorso anno con gli abiti di mia madre Renée, scomparsa due anni fa. Erano abiti ordinari, quotidiani, modesti (mia madre era una donna semplice), che noi abbiamo lavorato nell’atelier, insieme alle modelle, e che con le tecniche dell’alta moda, dal drappeggio al plissé, abbiamo trasformato in vesti preziose: da vestiti che erano, sono diventati «poesie». Così, quando Fondation Cartier mi ha chiesto di ideare un’altra performance per Milano, ho pensato di chiedere agli invitati di portare con sé degli abiti loro, di loro parenti o di cari amici (vestiti, cioè, che avessero ai loro occhi un valore affettivo) che le modelle sul palco, forti delle loro esperienze passate con Yves Saint Laurent, Martin Margiela, Jean-Paul Gaultier, avrebbero interpretato, indossandoli, per esaltare la bellezza dell’ordinario: la banalità e la tenerezza del quotidiano, si potrebbe dire.
Lei è il pioniere di un nuovo approccio concettuale alla moda. Nell’azione «Models Never Talk» (non presentata a Milano) le modelle non indossano gli abiti ma li raccontano dettagliatamente. Perché ha voluto cancellare la parte visiva della moda a vantaggio del racconto?
In realtà non ho voluto cancellare l’aspetto visivo della moda ma ho inteso dare voce alle modelle, che non hanno mai voce. Volevo che, vestite di semplici body neri, raccontassero gli abiti che avevano amato e li facessero rivivere con gesti coreografici servendosi della gestualità che è propria di ogni grande creatore. Penso per esempio ad Amalia, una modella di colore che era molto cara a Yves Saint Laurent e la cui gestualità è inconfondibilmente «Saint Laurent». Perché nei musei della moda si può conservare tutto ma non il gesto. Se mai, è nell’azione «Salon de Couture» (che sono felice di poter ripresentare a Milano per la prima volta dal debutto, nel 2006) che c’è un racconto non visivo. Qui Violeta Sanchez porta in scena, con le sue parole, una sfilata fantasma. Dei vestiti, infatti, restano solo le sue descrizioni, i ricordi dei tessuti e delle forme.

Olivier Saillard al lavoro. © Ruediger Glatz
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