La gratitudine amarognola di Portoghesi per Roma

Pensiero e vicende biografiche dell’architetto. Tra i suoi successi Roma Barocca e Roma/amoR, le cattedre alla Sapienza e la galleria Apollodoro aperta negli anni ’90 con la moglie Giovanna Massobrio

Paolo Portoghesi. Foto di Giovanna Massobrio
Guglielmo Gigliotti |

Paolo Portoghesi, nato a Roma il 2 novembre 1931, compie novant’anni. L’architetto e storico dell’architettura ha progettato in Italia e nel mondo chiese, moschee, teatri, ospedali, scuole, grattacieli, piazze e quartieri; è il maggiore esperto di Borromini, ma ha scritto libri su Michelangelo, Guarino Guarini, Bernardo Vittone, Palladio, il Rinascimento, il Liberty e il Postmoderno che sono diventati dei classici della storiografia architettonica: Roma Barocca, del ’66, è oggi alla 13ma edizione. Tuttora docente universitario di Geoarchitettura, è stato presidente della Biennale di Venezia dal 1983 al 1993 e ha diretto nel 1980-82 le prime due edizioni della Biennale di Architettura.

Come vive l’appuntamento con i 90 anni?

Cercando di fare serenamente il bilancio di quello che sono riuscito a fare e di quello che è rimasto nella penna. La stagione che stiamo vivendo rende difficoltosa qualsiasi azione, ma facilita il pensiero, e io ho pensato me stesso.

L’esito?

Negativo, con qualche luce. Sono riuscito a esprimermi, ma non sono riuscito a convincere della bontà delle mie idee e dell’utilità delle mie posizioni teoriche. La teoria dei campi, per esempio. Apprezzata da molti, ma non attuata.

Qual è il ricordo più bello della sua vita privata? E qual è il ricordo più bello della sua carriera professionale?

Nella vita privata l’incontro, esattamente cinquant’anni fa, con mia moglie Giovanna Massobrio, neolaureata in architettura, incontro che ha determinato il nostro idillio. A livello professionale il ricordo più bello è il mio primo successo di storico dell’architettura, un piccolo libro su Guarino Guarini, avevo 23 anni, ero all’inizio di tutto.

Due anni fa è uscita per Marsilio la sua autobiografia «Roma/amoR». Anche Roma è stata molto amata da lei.

Sì, ma non solo. Sento una gratitudine immensa per questa città, ma questa gratitudine ha un sottofondo amarognolo. Roma è come un Giano bifronte: da un lato sorride, dall’altro ghigna diabolicamente. È una città di contrasti e contraddizioni, meravigliosa, ma a volte anche odiosa.

Lei è un sottile indagatore di strutture minerali, vegetali e animali e ha scritto numerosi saggi sul rapporto architettura-natura. Esiste un confine netto tra natura e cultura?

Sto scrivendo un libro sulla bellezza, così tradita dalle avanguardie. Lì dico che la bellezza è un frutto della natura che noi tentiamo di imitare. La natura ci ha fornito gli archetipi dell’architettura: la caverna ci ha ispirato il principio della casa, i rami ci hanno fornito il materiale per realizzarla, i tronchi sono diventati le nostre colonne e i pilastri, il cielo è stato trasfigurato nelle cupole.

Balzac diceva che l’artista deve rubare a Dio i suoi segreti. Lei che cosa ha rubato alla natura?

Ho cercato di rubare la naturalezza. Per esempio, la tessitura di relazioni tra le parti che non sia ostentata, ma immanente, naturale appunto.

Per lei qual è la «Urform», la forma originaria di tutte le forme?

La curva. Le ho dedicato anche un libro. In natura, eccetto in rari cristalli, la retta non esiste. La curva è l’elemento del movimento della vita e ne è anche il simbolo. La vita è lì, dove c’è qualcosa capace di curvarsi.

Anche il coronavirus è natura. Che cosa può insegnarci il coronavirus?

Che la potenza della natura è molto superiore a quella dell’uomo.

Lei insegna all’Università di Roma al corso di Geoarchitettura, fondato su un’idea di architettura intestata all’armonia con l’ambiente. La mentalità geoarchitettonica potrebbe salvare l’uomo da sé stesso?

Sarebbe indubbiamente uno dei fattori di possibile salvezza. In pochi decenni l’uomo ha costruito più metri cubi che nei precedenti 10mila anni. È giunta l’ora di frenare il fenomeno e tornare a ispirare l’architettura alle leggi della natura.

Che cosa pensa delle archistar?

Sono come i grandi ricchi, infelici perché hanno troppo. Sono costretti a fare dieci progetti al giorno, mentre molti architetti non hanno lavoro. E sono costretti a comandare eserciti di disegnatori che faranno repliche di quel che pensa il maestro.

La novità, qualsiasi novità, è considerata da molti una qualità estetica e finanche etica. Si può andare avanti senza considerare ciò che si lascia?

La presunta libertà di andare sempre avanti è in realtà una schiavitù. La novità è una caratteristica importante di tutto quello che fa l’uomo, ma non la si può considerare come aspetto essenziale, perché il futuro si costruisce anche con materiali che vengono dal passato.

Lei ha iniziato la sua carriera accademica nel 1962 con l’incarico di docente di Letteratura italiana presso la Facoltà di Architettura della Sapienza di Roma. Quanto hanno influito sulle sue visioni gli scrittori e i poeti
?
I poeti mi hanno influenzato più degli architetti, perché la poesia insegna a contenere idee ed emozioni all’interno di strutture rigorose. E poi i poeti aprono il proprio cuore nelle loro opere, gli architetti no, o molto meno. Io ho tre grandi punti di riferimento: Borromini, Leopardi e Rimbaud. Due su tre sono poeti. Ma poi ci sarebbero anche Rilke, Hölderlin. La biblioteca di casa mia ha una grande maggioranza di libri di architettura, ma la mia biblioteca mentale è dominata dai poeti.

Negli anni ’90 aprì con sua moglie la galleria d’arte Apollodoro in piazza Mignanelli a Roma.
Dopo natura, architettura e letteratura, il quarto amore è per l’arte?
Sì, ma non per l’arte, per le arti. Allestivamo anche mostre di design, come a voler ricostruire il clima della stagione del Liberty. Ma Apollodoro ora rinasce, a Calcata, a nord di Roma, dove vivo. Inaugureremo presto una mostra di dipinti di Luigi Frappi.

Bruno Zevi diceva che la sua specialità era quella di vedere sempre nel male qualcosa di positivo e nel positivo qualcosa di negativo.

Non rinnego affatto questa asserzione, anzi mi ci riconosco. In fondo è la rappresentazione della coincidenza degli opposti. E poi c’è sempre del bene nel male. Il demonio è pur sempre solo un angelo caduto.

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