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James Brown, «Five figures on the shore», 2019 (particolare)

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James Brown, «Five figures on the shore», 2019 (particolare)

James Brown tra memoria e astrazione

Il doppio omaggio romano all’artista americano svela un ciclo inedito realizzato nello studio di Alessandro Twombly nel 2019

È una mostra che doveva aver luogo nel 2020, e invece in quell’anno l’artista è morto in un incidente stradale, assieme alla moglie Alexandra. «James Brown. I want to know» riallaccia i fili di un destino tragico, riportando le sorelle Bonomo, Alessandra e Valentina, a un appuntamento che il fato non ha permesso di rispettare, quello con l’esposizione dello statunitense nelle loro due gallerie. Dal 27 maggio al 30 settembre, così, presso la Galleria Alessandra Bonomo e la Galleria Valentina Bonomo di Roma, quel ciclo di lavori che James Brown aveva realizzato nel 2019 nello studio di Alessandro Twombly, figlio di Cy, a Bassano in Teverina presso Viterbo, e che alle due sorelle romane aveva portato di persona in galleria, saranno finalmente visibili.

Il titolo «I want to know», fa riferimento a un intercalare tipico dell’artista statunitense, sempre proteso verso una comprensione di tutti i fenomeni, fin quanto possibile. La mostra è costituita dal ciclo «My other house», che si riferisce a una casupola nella proprietà dei coniugi Brown nella loro proprietà in Messico (vi si erano trasferiti nel 1995), dove i figli amavano giocare. Quella casupola sarebbe stata poi prescelta dall’artista come suo studio, rappresentando così quell’alterità in cui collocava idealmente la sua arte.

E se il ciclo ora in mostra a Roma è costituito da collage in cui prevale l’ordine geometrico, l’impaginazione per ortogonali e la disposizione degli elementi figurali secondo cadenze pausate, tanto da ricordare la grande tradizione del collagismo cubista e dadaista degli anni ’10-’20, nonché l’arte del Costruttivismo russo o il De Stijl olandese, i riferimenti degli anni giovanili sono da reperire nell’emisfero opposto dell’arte occidentale: il Neoespressionismo, la bad painting, il Graffitismo. Sodale di Basquiat, Haring e Schnabel, fu nel loro stesso ambiente dell’East Village di New York che Brown fece i primi passi espositivi. Più che passi, veri salti nel successo di critica e di mercato. Nel 1983, per esempio, espone proprio assieme a Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, oltre a Donald Baechler e Kenny Scharf, nella mostra «Campioni», presso Tony Shafrazi. In Italia i primi a promuoverlo furono la Galleria Lucio Amelio di Napoli e la Galleria Marilena Bonomo di Bari. La sua pittura, presentata anche in Italia in personali e collettive, si contrassegnava per un gusto quasi murale e «primitivo» del segno, tra arte infantile e post-informale, con gesti graffiati e anche gocciolature. Dal ricercato caos della pittura giovanile, giunge quindi all’ordine della maturità, con dipinti addirittura di rigorosa astrazione geometrica, anch’essi presentati ora in mostra a Roma presso le figlie di Marilena Bonomo.

James Brown, «The glass cabinet», 2019

Guglielmo Gigliotti, 24 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

James Brown tra memoria e astrazione | Guglielmo Gigliotti

James Brown tra memoria e astrazione | Guglielmo Gigliotti