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La crisi ci ha reso necessari

Alessandro Martini

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Secondo Enrica Pagella, direttrice dei Musei Reali, il «futuro sostenibile» dipenderà anche dalla socializzazione dell’offerta culturale e dalla rete dei poli regionali voluta da Franceschini

A volte le grandi sfide hanno inizi apparentemente poco promettenti. Come Francesco Cirio che iniziava la sua carriera internazionale di imprenditore conserviero con un banchetto al mercato di Porta Palazzo, a poche centinaia di metri da dove oggi Enrica Pagella, 59 anni, avvia la sua direzione dei Musei Reali senza neanche una linea telefonica.

Nominata il 23 gennaio scorso dal Ministero nell’ambito della riforma Franceschini, è tuttora ospite temporanea in una stanza ancora spoglia di una palazzina del polo reale concessa in uso ai Carabinieri del Nucleo Tutela Beni culturali. Ma Enrica Pagella è abituata alle sfide. Dal 1988, dopo la laurea e il dottorato, è stata chiamata a dirigere e riaprire al pubblico prima il Museo Civico d’Arte di Modena poi, alla fine degli anni ’90, il Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama a Torino, allora nel pieno di un’impasse burocratica dopo una lunga stagione di chiusura al pubblico. Nel 2011 è stata chiamata come consulente per la riapertura dell’Accademia Carrara di Bergamo.

Nel 2012 ha ricevuto da una giuria internazionale il premio Icom Italia Musei dell’anno come miglior museologa italiana. Ora siede, in attesa del personale che il Ministero sta ridistribuendo tra i suoi uffici territoriali, nella stanza di Casa Spalla, a pochi metri dalla Galleria Sabauda e dal Museo Archeologico che, insieme al Palazzo dei Savoia, all’Armeria, alla Biblioteca e ai Giardini Reali appena restituiti alle visite, costituiscono il «polo reale» a lei affidato: una concentrazione ambiziosa di musei statali, un tempo separati, in un unico organismo.

Dottoressa Pagella, la sua carriera di storico dell’arte impegnato nei musei è iniziata in anni di grande rinnovamento disciplinare. Quali sono stati i suoi riferimenti?

Da Enrico Castelnuovo, con cui mi sono laureata nel 1982, ho imparato il gusto per la complessità e per una storia dell’arte fatta non solo di pittura e scultura, ma anche di arti applicate, dove i temi sociali e la geografia rivestono un ruolo cruciale. Per la mia formazione però è stata determinante, ancora prima della laurea, l’attività di schedatura territoriale per la Soprintendenza del Piemonte, allora guidata da Giovanni Romano. È una grandissima palestra per uno storico dell’arte: costringe al confronto con aree e problemi inesplorati (io ho lavorato in chiese secondarie a Tortona e nel Vercellese), all’esercizio del riconoscimento e al giudizio di qualità su frange marginali del nostro grande patrimonio, ancora bisognose di contestualizzazione e di documentazione. Mi sono formata nel pieno degli anni ’70, in un momento molto importante per la rottura degli schemi della nostra disciplina, e il lavoro territoriale era sentito un po’ come una missione. 

Che cosa si doveva rompere in quegli anni e come si voleva ricostruire?

Intanto si spingeva verso una visione molto più integrata e meno gerarchica della produzione artistica. Poi quello è stato il momento forse più importante della riflessione sul museo come «luogo sociale», in cui la storia dell’arte è entrata a diretto confronto con le comunità, e hanno preso il via l’animazione museale, la didattica, i laboratori. È stato il momento del «territorio» e della messa in discussione del suo rapporto con il museo; e quindi della costruzione di un’idea di tutela diffusa, capillare, legata alla collettività. Allora pensavo che il mio futuro sarebbe stato quello della ricerca dentro l’Università, ma nel frattempo insegnavo nelle scuole, lavoravo come programmista-regista nei programmi radiofonici della Rai e facevo colloqui per un posto di redattore all’Einaudi...

Nel 1988 è arrivato l’incarico triennale, rinnovato per oltre dieci anni, per la direzione del Museo Civico di Modena, allora chiuso e da riaprire. C’era un comitato scientifico d’eccezione, con Andrea Buzzoni, Massimo Ferretti e Salvatore Settis. La mia collaborazione con la città era cominciata negli anni del dottorato (1983-86), per le mostre dedicate ai restauri della facciata del Duomo (1984). Wiligelmo e Lanfranco sono stati un grande amore e una grande palestra e mi hanno spalancato il mondo del Romanico europeo. Il Museo Civico mi ha legato definitivamente al mestiere applicativo del curatore, che richiede la capacità di trasformare la storia dell’arte in un oggetto comunicabile, di valutare le relazioni tra gli oggetti e gli spazi e di capire, decostruendo e ricostruendo, il potenziale di narrazione che le opere racchiudono. Questa prospettiva è divenuta preminente a partire dagli anni ’90, quando la crescita del pubblico ha posto i musei di fronte a nuovi bisogni di divulgazione e di comunicazione. Si iniziava allora a essere molto attenti ai dati di pubblico. L’introduzione del controllo di gestione nelle amministrazioni ci ha costretti a capire il successo di ciò che producevamo, dalle mostre alle attività per le famiglie.

La valutazione qualitativa non è mai semplice, richiede che il personale museale si ponga in una condizione di ascolto. Ci sono musei anglosassoni che chiamano il pubblico «our people». Tutte le attività che abbiamo in seguito realizzato a Palazzo Madama hanno prodotto una comunità vera, calorosa, e quindi partecipe alle nostre azioni di crowdfunding. Il tema della valutazione nei musei italiani è tuttora molto trascurato, mentre in una competizione europea per ottenere finanziamenti, ad esempio, la valutazione è un momento importante tanto quanto la progettazione.

Quali sono le esperienze internazionali a cui guardare oggi?

Credo di non sbagliare se dico che il nostro modello è rimasto legato più a prospettive di ricerca e di conservazione che a doveri di accessibilità e di socializzazione. La cultura dei musei anglosassoni è diversa, forse perché affonda le sue radici nel Dna di democrazie più mature, che credono nei musei come luoghi di formazione della cittadinanza. D’altra parte è a Washington che è nato il primo museo radicalmente inclusivo, l’Anacostia Community Museum, dal 1967 dedicato alla cultura degli afroamericani. Basta considerare e vedere l’uso che è stato fatto del web per garantire l’accessibilità ai patrimoni, un punto su cui i Paesi del Sud dell’Europa hanno un ritardo epocale, che ormai rallenta la loro azione anche sul piano della ricerca e della competitività globale, e che purtroppo erode e minaccia il senso stesso della loro identità.

Negli ultimi anni la situazione però sta cambiando anche in Italia. Grazie a chi o che cosa?

Alla crisi. La riduzione delle risorse finanziarie ha costretto tutti noi che lavoriamo nei musei a chiederci: siamo un’impresa socialmente sostenibile? Il servizio che diamo è percepito come necessario e irrinunciabile, così come quello ad esempio di un ospedale? E in che modo possiamo contribuire a migliorare la situazione generale partendo dalla nostra missione e dalla relazione con il nostro pubblico? A Palazzo Madama abbiamo perseguito l’introduzione massiva di attività inclusive, che non costavano niente se non il nostro impegno e il nostro tempo. Abbiamo esplorato il mondo dei social media, allargando enormemente il nostro potenziale pubblico, imponendoci però di trovare nuovi linguaggi e una nuova credibilità.

Parallelamente, il dover guardare all’Europa per ottenere finanziamenti ci ha costretti a confrontarci con i musei del Nord e con gli orientamenti comunitari fortemente indirizzati alle politiche sociali. Politiche verso le quali si sono via via rivolti anche i nostri finanziatori più tradizionali, come le fondazioni bancarie. Questo ha, inevitabilmente e direi finalmente, costretto a un cambiamento epocale nei musei italiani. Così come in passato, i musei locali sono stati maggiormente disponibili al cambiamento; diverso per i musei statali, gravati da una scarsa cultura dell’autonomia. Credo quindi che il processo che ha portato alla riforma Franceschini, oggi in atto, fosse inevitabile.

Lei ha diretto prima un museo civico tradizionale, per passare a un museo gestito in economia come Palazzo Madama, poi confluito in una fondazione, fino ad arrivare a un grande museo statale. Quali sono le differenze?

Anche all’interno della sola macchina municipale ho visto negli anni grandi cambiamenti, a partire dalla riforma Bassanini (1997) che ha consentito un’azione più incisiva sui servizi. Il modello della fondazione che ho vissuto a Torino è stato uno dei modi con cui i Comuni hanno sorretto il passaggio dei musei da uffici comunali a luoghi di produzione, più capaci di rispondere ai bisogni del pubblico. È però vero che dentro a una fondazione ho vissuto la perdita di moltissime risorse e competenze che soltanto il più vasto contesto di un’Amministrazione locale possiede (dai servizi scolastici, a quelli sociali e per l’immigrazione) e che permettono una conoscenza penetrante della comunità locale in cui il museo opera. Dentro lo Stato la situazione è ancora più opaca, almeno oggi. La scarsa padronanza delle lingue straniere e delle nuove tecnologie, ad esempio, è un handicap oggettivo per musei chiamati a sfide internazionali.

Dopo anni di interventi più o meno efficaci alla struttura del Ministero, la riforma Franceschini si sta compiendo. A che punto è?

È una riforma molto radicale, e come tale piena sia di opportunità sia di difficoltà attuative, che sono tantissime. Ma nessun processo davvero rivoluzionario ne è indenne e in questa riforma vedo la possibilità che i musei tornino a essere, come già i musei civici nell’Ottocento, dei presidi di tutela attiva diffusi capillarmente nel territorio. Dopo mezzo secolo, abbiamo capito che la tutela non è fatta solo di azioni prefettizie, ma è un obiettivo da condividere con le comunità. Voglio ricordare un aspetto della riforma di cui si parla poco. È la rete di poli museali regionali, segno di una volontà di realizzare «sistemi» di musei, che sostengano il dialogo tra i musei minori e i venti autonomi e costruiscano delle strategie comuni, sulla base dei bisogni espressi dalle singole comunità di riferimento. Da parte mia, penso che tutti i musei debbano essere autonomi, piccoli e grandi. L’autonomia di bilancio impone responsabilità, perché implica la chiara definizione degli obiettivi e delle strategie, e poi la valutazione dei risultati raggiunti, nell’ambito delle linee guida ministeriali. Tutto questo va nella direzione di costruire non un’élite di musei che si muovono come marziani nel nulla cosmico, ma piuttosto luoghi di sperimentazione dell’autonomia che rimangono saldamente vincolati alle politiche territoriali. Dentro questo grande sistema nazionale ognuno dovrebbe poter trovare il proprio ruolo senza privilegi e senza distinzioni, e anche «senza pigrizia e senza boria», che è uno dei miei motti preferiti. 

Per lei che ha lavorato per anni con amministrazioni «progressiste» (Castellani, Chiamparino, Fassino), è una riforma «di sinistra»?

La mia politica è sempre stata quella incarnata nei musei, e credo che questa riforma sia una spinta verso l’innovazione e che vada incontro ai bisogni della società con l’ambizione di costruire un’idea della cultura più diffusa e più democratica. Se questo è di sinistra, sia. Io sono nata a Ivrea, in una famiglia «olivettiana». Olivetti era di sinistra? Oggi diremmo di sì. Certo è che quella cultura del progetto e dell’innovazione è un tratto che, a partire dalla mia infanzia, è rimasto centrale nella mia vita professionale.

Qual è il ruolo e quali le prospettive dei Musei Reali?

In Italia non esiste un altro museo con questa complessità, forse solo a Firenze con l’unione degli Uffizi a Pitti. Ma qui a Torino si aggiunge la chance di avere tutte le collezioni sabaude dentro un unico percorso. La sfida è quella di tenere insieme tanti musei diversi: dalle collezioni dinastiche all’archeologia di scavo, dalla Pinacoteca alla seduzione del Palazzo Reale arredato, ai disegni e alle armi, fino alla stupefacente architettura della cupola di Guarino Guarini. «Arte, storia, natura»: così recita il nostro nuovo claim, anche per sottolineare il ruolo dei Giardini Reali che sono il vero spazio di snodo del sistema. C’è molto da fare, e finalmente ci sono anche le risorse del finanziamento strategico “Grandi progetti Beni Culturali” del Ministero (7 milioni). Possiamo riprendere cantieri avviati e mai conclusi: i nuovi uffici del museo; la completa accessibilità al percorso; la manutenzione e il restauro di tutti gli appartamenti del primo piano (entro il prossimo anno); il parziale riordinamento della Galleria Sabauda per far nuovamente emergere la sua storia collezionistica con sezioni più chiaramente allestite e comunicate (dalla Collezione del principe Eugenio alla Collezione Gualino); la valorizzazione delle raccolte archeologiche cinque-seicentesche; il restauro del Bastion Verde e della rampa per un nuovo accesso dai Giardini bassi; la comunicazione del nuovo brand «Musei Reali» (tutto da fare); il rifacimento della biglietteria e il collegamento tra il Palazzo Reale e la Cappella della Sindone, che riaprirà dopo vent’anni di restauri a novembre 2017. Penso infine a punti ristoro interni ed esterni e anche ad alcuni interventi mirati di arte contemporanea.

Quanto è ancora importante lo storico dell’arte alla direzione di un museo?

Credo che nella vita di un museo, che per sua natura muta e manifesta bisogni sempre diversi, possano esistere momenti in cui il management deve avere il sopravvento, quando ad esempio l’organizzazione è più urgente della curatela. Ma in organismi complessi, quali sono ad esempio i Musei Reali, è sempre preferibile che l’azione sia sottomessa a una regia di competenza tecnica. È difficile governare cose di cui non si comprende appieno il potenziale e il messaggio, così come è difficile, a quel punto, convincere altri a farlo nel migliore dei modi. Certo, la tecnicità, in un museo, deve sempre avere un carattere aperto, flessibile, dialogante, nomade, inclusivo, trasversale. La nostra missione è comunicare dei valori speciali e sviluppare opportunità di conoscenza: occasioni di «riconoscimento», quindi, per meglio orientarsi dentro la propria anima e nel mondo, in modo consapevole e critico.

Alessandro Martini, 19 maggio 2016 | © Riproduzione riservata

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