La copertina come atto critico

Considerazioni su Roberto Calasso storico dell'arte

Roberto Calasso
Stefano Causa |

Subito dopo Calasso, fortuitamente fiorentino ma abitatore di molti mondi, è raffinatissimo storico d’arte. Di quelli cui occorre tornare come un salvavita; specie dacché il mestiere più bello del mondo è stato irregimentato in uno specialismo dove Curiosità e Passione si contano (o si scontano) come un disvalore aggiunto.

Cresciuto tra la British Library e le sale del Warburg Calasso battezza gli Adelphi, una delle grandi avventure intellettuali di secondo Novecento, quando si scontano i postumi del neorealismo (che sarebbe ora di definire neo caravaggismo), mentre escono Il Gattopardo, Otto e mezzo e, a Londra, nello stesso 1963, il primo album dei Beatles.

Tra meno di un anno un combattivo semiologo di trent’anni proverà in Apocalittici e Integrati a spiegare come si possa analizzare una striscia di Steve Canyon come il Fermo e Lucia. Intanto il siciliano Guttuso è il portavoce figurativo ufficiale del PCI mentre a Bologna Giorgio Morandi verrà scagliato come un ariete dal suo amico scrittore e storico d’arte Roberto Longhi contro ogni tentazione del Nuovo.

Calasso annusa o legge più o meno ogni cosa. Ma si rende conto presto che le cose più interessanti rimangono sul fondo. Ha capito come dallo «Scaffale consigliato» rimanga fuori vasta parte dell’essenziale. Il meglio da leggere e vedere uno lo deve cercare fuori dagli statuti di una cultura allineata perlopiù da una parte.

Perciò, col mestiere di editore, decide di proporre, senza imporla, una sua playlist. A mano a mano, fidelizza qualcuno che, fin dalla copertina, sia lettore e anche spettatore. Negli anni coltiverà un pubblico curioso, consapevole e sanamente snob, che si lasci sedurre senza capire tutto (che liberazione!) e voglia tentare di sottrarsi alle strategie di persuasione targate Einaudi a colpi di premesse, inviti al lettore e avvisi ai naviganti. Quanto allo scrittore, Calasso è l’autore di due dei libri di storia dell’arte come storia della cultura più importanti degli ultimi vent’anni.

Il primo è il Rosa Tiepolo. Un saggio del 2006 che ne contiene tre: uno sulle incisioni del Tiepolo, un secondo sul Settecento secolo tra i meno conosciuti e tre, ultimo ma non per ultimo, su chi, come Longhi, Tiepolo detestava e che aveva fatto soccombere in un duello all’Ok Corral con lo sceriffo di ogni realismo Caravaggio. Viene fuori una breve ma veridica storia dell’arte contro longhiana dove si riabilita tutto quanto non rientrasse nel parametro del realismo o della Pittura della Realtà.

Facile accompagnare cinque anni dopo, a questo pamphlet fuori del coro, la Folie Baudelaire, forse il più bel libro mai scritto (da un italiano) sull’Ottocento francese e dove persino i visitatissimi frangenti dell’età di Napoleone III sono rivisti e frugati con controluce inediti. Certo, oggi celebriamo anche il grande scopritore di titoli. Nessuno ha saputo intercettare altrettanto bene lo spirito del tempo (L’insostenibile leggerezza dell’essere, piaccia o meno, sono gli anni 1980).

Calasso non è il maggiore editore italiano solo perché è molto più di questo. Scrittore, lettore, promotore di scrittori animati da spinte irrazionalistiche (la Ortese nella Napoli di Rea); o refrattari al calvinismo imperante (da Landolfi a Manganelli a Savinio stesso ad Arbasino); impareggiabile suggeritore di piste di lettura e, soprattutto, gran conoscitore di immagini.

Ecco. Provate ad allineare cinquanta o cento copertine «Adelphi» degli ultimi decenni. Formano la più strepitosa e imprevedibile antologia di pittura europea (e americana) al passaggio tra Otto e Novecento. Si può fare una storia dell’arte italiana del secondo Novecento dalle copertine dei libri e dei dischi.

Ma quelle di Calasso, diversamente, che so, dai capolavori di Albe Steiner, si qualificano come un vero e proprio atto critico. Nel mondo di Simenon (extra Maigret) si entra, ormai, accompagnati da lui. Anche le pagine sempre un poco coriacee di Leonardo Sciascia sembrano inseparabili dai dipinti, ad acculturazione intensiva, di Fabrizio Clerici.

Nel circolo carbonaro Adelphi non si vive di solo Courbet, Cézanne, Picasso o Matisse. Ma di danesi del primo Ottocento, di pompier francesi mai troppo amati, di belgi in odore di simbolismo, di tedeschi della nuova oggettività e americani del Novecento ostracizzati dal dominio, anche mercantile, degli espressionisti astratti (Wyeth e Colville contro Pollock, insomma).

La modernità non è il formalismo francese che ha lasciato fuori dalla porta le spinte contenutistiche, che siano metafisiche o irrazionali di tanta pittura anche italiana. Guttuso e Morandi non abitano volentieri da queste parti; ma Donghi, Casorati e Alberto Savinio sì. Nessuno come Calasso ha contribuito (con successo?) a riscrivere le mappe di una modernità dalla spesso perfetta reperibilità figurativa; forse solo, più oscuramente, un professore dell’ateneo fiorentino, amatissimo dai suoi allievi a finire con chi scrive, come Carlo Del Bravo.

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