Impudica e di forme abbondanti

Recenti scoperte vedono la procace Venere di Willendorf, scoperta nel 1908 dalle parti del Danubio, provenire dal Lago di Garda

La Venere di Willendorf
Flaminio Gualdoni |

Al Naturhistorisches Museum di Vienna c’è la Venere di Willendorf, superstar, a modo suo, tra le cosiddette Veneri paleolitiche. Adesso, inoltre, noi italiani dovremmo sentirci orgogliosi per il fatto che un antropologo e due geologi, Gerhard Weber, Alexander Lukeneder e Mathias Harzhauser, in un recente articolo asseverano l’ipotesi che sia stata realizzata dalle parti del lago di Garda, sulla base di complesse analisi sul materiale fatte ricorrendo alla tomografia microcomputerizzata.

La Venere di Willendorf l’aveva trovata nel 1908 Josef Szombathy a Willendorf in der Wachau, che è dalle parti del Danubio: e la vera cosa sconvolgente è che l’abbiano ascritta d’ufficio alla Storia dell’arte, in assenza di dati ulteriori (stiamo parlando di 25mila anni fa) che ci permettano di capirne un po’ di più. Ai tempi si procedeva per le spicce: nudo femminile, dunque Venere; forme abbondanti, dunque sessualità. Da lì è partita tutta una rumba di ipotesi fuori luogo che ormai ci ammaliano come se fossero vere: e da lì, a ben vedere, non ci siamo mai veramente smossi. Il massimo è stato decidere se si trattava di una Venus pudica o no, e si stabilì che apparteneva alla specie delle impudiche.

La storia dell’arte, si sa, ha ragioni in qualche modo imperscrutabili. Un nudo femminile si concepiva solo se, idealisticamente, si usava, come unità di paragone delle pudiche, la Venere Cnidia di Prassitele, una faccenda cruciale del IV secolo a.C., dunque la bazzecola di circa 23mila anni di differenza dalla Willendorf, che, a dispetto delle chiappe esibite dalla dea si proteggeva vagamente, molto vagamente, le pudenda: quanto vagamente lo spiegava già Joseph-Antoine de Gourbillon, che nel 1819 scriveva: «La sua mano sinistra s’appoggia come macchinalmente sulla parte del corpo che gli antichi nominavano e che noi, più timorati senza essere più modesti, ci contentiamo d’indicare», ma in modo che «lo sguardo esploratore» possa ben vedervi sotto.

Cioè, si confrontava bellamente una statua a grandezza naturale di una dea greca a una minuscola produzione in calcare alta 11 centimetri (ma la fotografia, si sa, ha il potere anche di mutare la nostra idea delle dimensioni, e la Willedorf pare davvero grande), evidentemente portatile (dunque lo stupore che sia stata portata da un luogo all’altro mi pare largamente fuori luogo) e felicemente schematica.

Ma ancora ci si sconvolgeva per la nudità, tanto che a battezzare la prima Venus impudica fu nel 1864 il marchese Paul de Vibraye per una statuetta di Laugerie Basse, in Dordogna, una roba di quasi 10mila anni dopo la Willendorf, non trovando di meglio che stigmatizzare la «dépravation chez nos pauvres troglodytiques, les plus vieux habitants de l’Europe».

Che poi la definizione di Venus pudica fosse una vistosa balla, così come la simmetrica di Venus impudica, chiunque avesse un po’ di vago buonsenso storico poteva ben immaginarselo. Ma noi andavamo, e nonostante tutto andiamo, ahimè, bellamente avanti a ragionare sull’idea della somiglianza, come se quei plurimillenari corpi ritraessero un corpo fisico, per di più dotato di «comune senso del pudore», dunque ci stupivamo per quelle tettone, per quei glutei e per quelle vagine vagamente smisurate. E mica ci siamo mossi di molto, da allora: probabilmente c’è ancora qualcuno che si fa domande sui braccini così modesti della Willendorf, e c’è qualcun altro che per davvero pochi anni fa ha deciso di censurare le nudità della statuetta su Facebook. «Robb de matt», è il caso di dire.

© Riproduzione riservata
Altri articoli di Flaminio Gualdoni