Una veduta dell’allestimento della mostra di Ferdi Giardini da Davide Paludetto. Foto di Jessica Quadrelli

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Una veduta dell’allestimento della mostra di Ferdi Giardini da Davide Paludetto. Foto di Jessica Quadrelli

Il relitto perfetto di Ferdi Giardini

Da Davide Paludetto opere degli anni Ottanta

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Franco Fanelli

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Torino. L’arte contemporanea ha attraversato una sua «età del ferro», a partire dalla scultura informale degli anni Cinquanta e culminata nei due poli del Minimalismo e dell’Arte povera. Innumerevoli furono gli epigoni e numerosissimi, tra loro, quelli che non capivano che una volta perduta una sua necessità storica e poetica, qualsiasi materiale utilizzato nell’arte con finalità non solo tecniche ma anche simboliche e metaforiche perde la sua potenza.

Ferdi Giardini, artista nato nel 1959, e per di più attivo a Torino, piazzaforte poverista, innamorato di corrosioni e ruggini, comprese che anche la loro creazione processuale, e persino il ready made di elementi desunti dall’industria rischiavano di diventare «maniera» o di scadere nella retorica. Della ruggine recuperò allora il valore pittorico; del relitto il suo côté più visionario: all’inizio degli anni Ottanta, del resto, la cinematografia di fantascienza mandava nello spazio astronavi che avrebbero potuto essere disegnate da Piranesi, progettista dell’archeologia e di un passato ritornante.

Ferdi Giardini, all’epoca fresco di studi in Scenografia all’Accademia di Belle Arti, introdusse un ulteriore elemento, una colta ironia: le sue opere eseguite in quel periodo e ora in mostra sino al 21 settembre nella galleria Davide Paludetto a Torino conservano intatta la loro ironia tragica. Sono macchine allusive a una presunta e deposta funzionalità, eppure potenzialmente in grado di essere rimesse in azione. Chiglie, camini, condutture, alettoni o ancora casse di giganteschi strumenti musicali (ne fuoriescono, ogni tanto, «visceri» fatti di tubi e fili elettrici) che paiono riassemblati e che, al contrario, sono scaturiti dalla mente dell’autore come visionario progetto (lo evidenziano i disegni in mostra). Il tutto in un trompe l’oeil totale, che caratterizza anche i due dipinti che completano questa esposizione (accompagnata da un bel testo di Fabio Vito Lacertosa): la ruggine, le corrosioni, i rialzi di vernice, le patine consunte da un tempo tutto mentale sono sapientemente prodotti per via chimica; quanto alle «lamiere», sono fogli di compensato magistralmente flessi o modellati, fintamente uniti da bulloni di plastica.

Era un modo per alleggerire, non solo fisicamente, un materiale e un’idea di scultura all’interno della quale permangono comunque, anche negli anni del riflusso delle ideologie e del disimpegno totale, sia un legame con il messaggio modernista (riletto con occhi nuovi ma altrettanto penetranti), sia la fede nella funzione principale dell’arte, che, attraverso il magistero della mimesi, continua a mettere in scena una narrazione che rifugge dal didascalismo in virtù della sua potenza evocativa.

I poetici e onirici titoli che accompagnano le opere dissuadono immediatamente da qualsiasi sospetto di irridente parodia. Ferdi Giardini osava la monumentalità, compagno, in questo, di Sergio Ragalzi e Salvatore Astore: Franz Paludetto, di cui il figlio Davide ha raccolto il testimone, fu tra i pochi, allora, a raccogliere la sfida delle loro opere, le quali, più che per il mercato, sembravano pensate per dimensioni di respiro museale. La loro intatta «durata» espressiva è la prova che quelle aspirazioni erano più che motivate.

Una veduta dell’allestimento della mostra di Ferdi Giardini da Davide Paludetto. Foto di Jessica Quadrelli

Franco Fanelli, 04 settembre 2019 | © Riproduzione riservata

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