Il Guernica del Pordenone

Tra le tante ipotesi sulle possibili fonti di ispirazione di Picasso per il suo capolavoro sorprendono le analogie con gli affreschi del Duomo di Cremona

Dall'alto a sinistra e in senso orario: particolare della «Salita al Calvario del Pordenone»; il centro di «Guernica» di Picasso; una foto di Dora Maar; lo studio del Pordenone per il «Ratto delle Sabine»; «Donna e Minotauro», di Picasso; «Cavallo in un paesaggio», 1937, di Picasso; un particolare di «Guernica»; un particolare della «Crocefissione» del Pordenone; uno dei ladroni nella «Crocefissione»; una fotografia di Dora Maar; e un cavallo nella «Crocefissione»
Guido Comis |  | CREMONA

Cinquecento anni fa, nell’agosto del 1520 i massari della Fabbrica del Duomo di Cremona affidarono a Giovanni Antonio de Sacchis «vulgo dictum il Pordenone» dal nome della sua città natale, la decorazione della controfacciata e di tre arconi della navata centrale della chiesa.

Quasi dimenticato nei secoli successivi, nel secondo decennio del Novecento Pordenone fu riscoperto e rivalutato come innovatore protomanierista della pittura dell’Italia settentrionale. Berenson lo aveva tacciato di provincialismo, ma proprio perché si era formato lontano da Venezia l’artista friulano aveva goduto di una libertà e ampiezza di riferimenti culturali non comuni in altri centri artistici veneti.

Anche grazie alla sua formazione periferica aveva potuto incrociare il dialetto veneto con il tedesco di Schongauer, di Dürer, di Altdorfer, per poi scendere in Umbria e a Roma e venire a contatto con la lingua di Raffaello e Michelangelo. S.J. Freedberg ha osservato che nel grande affresco della Crocifissione del Duomo di Cremona si trovano «gli umori e perfino certi aspetti formali della moderna “Guernica”» (Pittura in Italia dal 1500 al 1600). L’anniversario degli affreschi cremonesi offre l’occasione per verificare questa osservazione.

L’incarico di realizzare un’opera per il padiglione spagnolo dell’Esposizione Universale fu affidato a Picasso nel gennaio 1937, ma solo l’enorme risonanza dell’attacco aereo a Guernica indusse l’artista ad avvicinarsi progressivamente al tema della città bombardata, aggiungendo a elementi tratti da una scena di corrida l’edificio in fiamme, la madre che piange sui corpi di due giovani vittime, il braccio col pugno chiuso nel saluto comunista, un’altra madre col figlioletto morto. Da lì si dipanò il tortuoso percorso che lo avrebbe portato a creare quella che T.J. Clark, curatore di «Piedad y terror en Picasso» (Museo Reina Sofía, 2017) ha definito «la grande scena tragica della nostra cultura».

Se all’inizio l’incarico doveva essere di mera testimonianza a favore del Governo repubblicano, si tradusse, per l’urgere degli avvenimenti, in un’opera capace di suscitare orrore e sgomento per il martirio della cittadina basca e dei suoi abitanti. Per arrivarci Picasso dovette modificare la posizione e l’aspetto delle figure delineate negli schizzi preparatori, in modo da rendere irriconoscibile l’originaria vicenda di sangue e arena. Il toro è emarginato rispetto alla scena centrale, il picador caduto cambia posizione per tre volte e alla fine diventa una statua spezzata che impugna una spada. La moglie in ansia è avvicinata al centro del quadro, mentre all’estrema destra il personaggio con le braccia levate in un gesto di disperazione sembra il protagonista di un’altra storia.

Il dipinto assunse a quel punto più o meno la struttura di una rappresentazione religiosa, un trittico centrato sul gruppo di cavallo e cavaliere. È perciò naturale che Picasso abbia fatto ricorso al repertorio di immagini relative a quel genere pittorico e abbia cercato una struttura in cui collocare le figure che aveva trasportato dai disegni preparatori alla tela senza ancora un’idea precisa di come disporle in quello spazio allungato, conservando equilibrio e ritmo narrativo pur nella scomposizione cubista dello spazio.

Lo stesso problema compositivo si era posto Pordenone per le scene della Passione nei tre arconi della navata centrale del Duomo. In tutti e tre i casi il pittore scelse di collocare le figure in una piramide la cui base corrisponde a quella del dipinto. Ciò è particolarmente evidente nell’affresco con la Salita al Calvario, la cui misura (325x730 cm), come quella delle altre due scene, è singolarmente vicina a quella di «Guernica» (350x770 cm). Nell’opera del Pordenone il vertice della piramide è sopra il pugno del cavaliere che stringe la lancia.

All’interno di questa figura geometrica lo spazio è dominato dal grande destriero grigio rampante, la testa nevrile rivolta verso sinistra, gli zoccoli protesi verso lo spettatore, mentre alle due estremità del dipinto, al di fuori della piramide, abbiamo l’episodio di Ponzio Pilato sulla sinistra e il giovane che si ripara con il braccio alzato a destra.

Ed è proprio questa la struttura compositiva adottata da Picasso, che ha calato al centro di «Guernica» una gabbia triangolare il cui vertice corrisponde al lume accanto alla testa del cavallo ferito a morte, mentre ai due margini della composizione si trovano, sulla sinistra, il toro e la madre, a destra il personaggio a braccia levate. Non solo è centrale il ruolo che il cavallo svolge sia in «Guernica» sia nella Salita al Calvario, ma è analoga la postura dei due destrieri.

L’accostamento è ancora più sorprendente se confrontiamo le due diverse posizioni del cavallo protagonista di «Guernica» con lo studio del Pordenone per il «Ratto delle Sabine» di Palazzo Doria a Genova (Louvre, n. 5429). Come testimoniato dalle foto di Dora Maar che documentano l’evoluzione del dipinto di Picasso, il cavallo ha dapprima il collo piegato fino a terra, infine eretto a slanciare la testa con le mascelle spalancate e aggressive, posture che replicano in controparte quelle del disegno pordenoniano.

Nella Crocifissione della controfacciata si nota il profilo di una donna che fugge verso sinistra, la bocca aperta in un grido di paura, il collo proteso, i capelli mossi all’indietro. Il suo corpo è nascosto dalla figura dell’armigero che indica ai fedeli il dramma che si compie alle sue spalle, così che vediamo solo in parte lo strascico del vestito della fuggitiva. Le braccia loricate del centurione formano col corpo seminascosto della giovane un chiasmo dal quale prende le mosse la scena vorticante del martirio (le stesse croci sono disposte a semicerchio) che si compie sotto un cielo corrusco, in una luce livida, quasi serotina, che avvolge protagonisti e spettatori.

In «Guernica» troviamo la stessa atmosfera abbrunata e lo stesso tipo di struttura elicoidale, che muove in alto dalla testa del cavallo rivolta verso sinistra, alla quale corrisponde, in basso, il braccio destro del guerriero col mozzicone di spada. Da questi elementi si forma un vortice che sembra voler risucchiare i due profili femminili. Non si tratta solo di analogie strutturali. Il volto senza corpo della giovane che nella Crocifissione fugge verso sinistra, emblema dell’umanità sgomenta per il deicidio, ha in «Guernica» il suo corrispettivo nel grande profilo che protendendosi dalla finestra illumina il cavaliere caduto e l’animale sventrato.

Il giovinetto che a destra si allontana spaventato dalla scena della Crocifissione corrisponde alla figura in fuga all’estrema destra di «Guernica». Nelle fotografie di Dora Maar notiamo che questa figura prima di irrigidirsi nella posa definitiva assume un atteggiamento di disperata tensione che pare ricalcato su quello del corpo del ladrone cui, nella Crocifissione, lo sgherro sta per spezzare le ossa.

Il cavallo in primo piano nella Crocifissione, che piega la testa a sinistra e volge uno sguardo torvo verso l’osservatore, sembra aver ispirato anche uno dei cosiddetti «postscript di Guernica»: il «Cavallo in un paesaggio» del 1937 (Zervos, IX, 82). Fra gli ulteriori riflessi del Pordenone nell’opera di Picasso possiamo annoverare anche «Donna e Minotauro» (Zervos IX, 96) dove la figura del mostro colto nell’atto di scostare da sé la vela della barca, con la muscolatura sottolineata dai rialzi di biacca, pare ricalcata su quella del giovane che solleva il braccio nell’atto di proteggersi all’estrema destra della Salita al Calvario di Cremona.

E ancora, il toro che in «Guernica» sovrasta, senza neppure vederla, la mater dolorosa con il figlio morto sulle ginocchia, ha un suo antecedente nella Crocifissione, dove il cavallo grigio sulla sinistra e il cavaliere che lo monta paiono del tutto estranei al dramma della Madonna che sviene per il dolore di fronte al martirio del figlio.

Infine in «Guernica» abbiamo il disco infuocato del sole documentato da Dora Maar in uno dei primi stadi del lavoro, ma divenuto nella versione finale dell’opera un piatto bianco con lampadina elettrica, uno di quei piatti di lamiera smaltata comuni nelle cucine di una volta. Visto che al vertice della struttura piramidale di «Guernica» c’era già la lampada tenuta dalla donna-spirito, ci si domanda perché Picasso, che aveva già scartato altre immagini considerate non più necessarie o coerenti, non abbia eliminato anche questa inutile duplicazione di fonti luminose. Lo spunto del piatto con lampada può essere rintracciato guardando di nuovo la Crocifissione, che il Pordenone ha rappresentato come se si svolgesse su un palcoscenico, il cui boccascena è costituito da due colonne marmoree e da un soffitto di travi alternate a tondi di colore chiaro, schiacciati dalla prospettiva, centrati ognuno da un sottostante bulbo dorato, come fossero lampadine elettriche sormontate da piatti.

Dunque, Picasso conosceva l’opera del Pordenone? Prove documentarie non ne esistono. È certo però che il Pordenone era stato riscoperto negli anni Venti e Trenta: le fotografie degli affreschi di Cremona erano state pubblicate nel 1925 in «Cronache d’Arte» e l’interesse per l’artista era culminato nella grande mostra del 1939. È quindi possibile che Picasso abbia visto le immagini della sua opera e che gli siano rimaste impresse nella memoria. L’ipotesi contraria, e cioè che Picasso non conoscesse l’opera del Pordenone, farebbe pensare che una volta impegnato a dipingere la sua sacra rappresentazione, il pittore spagnolo si sia immedesimato nella parte al punto da arrivare inconsapevolmente, quattrocento anni dopo, alle stesse soluzioni figurative di un artista del Rinascimento, in ciò emulando il Pierre Menard di Borges.

Ma è preferibile credere che Picasso abbia visto le fotografie degli affreschi di Cremona, ne sia stato colpito e ispirato, e abbia introdotto in «Guernica», con un ultimo ritocco beffardo, un indizio illuminante come, appunto, una lampadina accesa.

© Riproduzione riservata La controfacciata del Duomo di Cremona con la Crocifissione del Pordenone