Stefano Causa
Leggi i suoi articoliTrenta o quarant’anni fa un libro del genere non si sarebbe potuto condurre in porto. Questa la prima cosa che salta agli occhi dal denso lavoro monografico di Mauro Vincenzo Fontana. Lo studioso racconta il paesaggio figurativo al passaggio tra il Cinquecento e il Seicento da un’angolazione sconosciuta al grande pubblico: quella di un pittore fiorentino, Giovanni Balducci, e del suo committente di riferimento, il cardinale Alfonso Gesualdo.
Diligente narratore, una sorta di Domenico Ghirlandaio riveduto e corretto, Balducci ha una produzione tanto copiosa quanto priva di guizzi. Fontana ne rintraccia il brodo di coltura nella cerchia di maestri che lavorarono nello studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio. Lo segue a Roma, lo ritrova a Napoli nel 1596. La ricostruzione del pristino assetto della tribuna del Duomo compone un modello di storiografia che, da solo, basterebbe a legittimare la solidità del lavoro di Fontana.
I set prescelti sono quelli di tre capitali dell’Italia preunitaria, Firenze, Roma e Napoli. Risale al '57 il volume di Federico Zeri, Pittura e controriforma, camera di scoppio di legioni di saggi dove per la prima volta la storia delle immagini ritornava incavicchiata a quella religiosa. Se quello di Zeri è un lavoro sulfureo, al limite fisico del racconto e contesto di echi della contemporaneità, il Balducci di Fontana è un moloch universitario filologicamente irreprensibile, dotato di regesti e catalogo ragionato dei disegni e dipinti.
Il racconto di tre città nessuno avrebbe potuto inverarlo meglio di Giovanni Balducci: fiorentino di nascita e formazione ma di approdo e naturalizzazione meridionali. Certo un fiorentino a Napoli non suona bene come un americano a Parigi.
Il viceregno è un crocevia di culture dove il Caravaggio, giuntovi una prima volta nel 1606, non incontra il deserto ma un paesaggio fertile arricchito anche dai dipinti di Balducci. A lungo il sistema delle arti a Napoli lo si è venduto come una macchina molle, tenuta in standby in attesa che arrivasse il gran lombardo. Meglio che spulciando nei libri, questo lo si capisce al secondo piano del museo di Capodimonte dove chiunque accelera il passo in attesa di sostare dinanzi alla «Flagellazione di san Domenico».
I quadri che precedono quel Caravaggio sono come parenti poveri. Stazioni da saltare senza rimorso. Tra queste un festevole Balducci: una «Presentazione al tempio» immaginata come una sagra di paese. Questo calare del ’500, stilisticamente ineccepibile, sopravvive al lessico del cosiddetto naturalismo. Ma è caduto dalle mappe della storia e da quei bollettini ufficiali che, della critica, dovrebbero essere le mostre. Solo negli anni ’80, qualcosa si muoverà.
Nel 1986 Mina Gregori provò a raccontare il ’600 fiorentino rintracciandone le matrici nel crepuscolo del ’500; mentre a Napoli, in una serie di calibrature su «Paragone», Marina Causa invitava a ripensare agli inizi del Caracciolo segnalandone l’avvio nella grafica di Belisario e del Balducci. Insomma: non basta Caravaggio a spiegare il volo del ’600 meridionale.
Non sarà inutile ricordare che, dal Vasari al Finelli, passando per un genio del Manierismo internazionale come Pietro Bernini, la fine del ’500 a Napoli e buona parte del secolo nuovo sono anche da intendersi in rapporto con il granducato mediceo. Di tutte queste cose non pare sia passato granché in quella che, un tempo, si chiamava cultura generale; e ci si augura che libri di questo impegno possano aprire nuove finestre di dialogo.
Itinera tridentina. Giovanni Balducci, Alfonso Gesualdo e la riforma delle arti a Napoli, di Mauro Vincenzo Fontana, 420 pp., ill. b/n, Artemide, Roma 2019, € 40,00
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