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Altarolo di Taddeo Gaddi (fine XIII secolo-1366), Napoli, Museo di Capodimonte

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Altarolo di Taddeo Gaddi (fine XIII secolo-1366), Napoli, Museo di Capodimonte

Giotto, Gaddi e il museo in rivista

I capolavori meno conosciuti a Capodimonte | Un trittico di Taddeo Gaddi

Stefano Causa

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Un Giotto, anche piccolino, a Capodimonte non lo abbiamo: né ci starebbe male visto che l’artista fu impegnato a Napoli per un quinquennio e con successo (per quanto la perdita quasi totale dei suoi lavori segni uno dei maggiori naufragi dell’arte meridionale). Assente il maestro, con pazienza e informazioni aggiornate sullo stato degli studi si può comunque immaginare un itinerario giottesco che, tra primo e secondo piano del museo, copra buona parte del Trecento, quello che incontestabilmente è il più bel secolo della pittura italiana, come ripetono invano gli storici d’arte a un pubblico mai sazio di Caravaggio.

Da Firenze a Siena alla Napoli angioina, il giro trecentesco del museo si assesterebbe su un paio di cime (dalla pala del San Ludovico di Simone Martini) e diverse cose rare dei giotteschi locali che formano, nonostante la buona volontà di alcuni, un manipolo di stupendi sconosciuti. Un Roberto d’Oderisio rimane un taglio di seconda scelta al mercato del gusto. Tutto sommato, scommettere su un Capodimonte giottesco, o neogiottesco, potrebbe essere il pretesto per un tour napoletano non banale.

Se Giotto latita, ne fa le veci il suo allievo più noto, il fiorentino Taddeo Gaddi (morto nel 1366) che gli scrittori contemporanei ammiravano soprattutto come eccellente pittore di architetture. Di lui le sale della collezione Borgia riservano un trittico di piccole dimensioni datato 1336 che dispiega al centro la Madonna con Bambino e i santi Pietro, Paolo, Antonio Abate e Agostino, in alto l’Annunciazione, ai lati da una parte il Battesimo di Cristo e dall’altra la Deposizione. A tempera su tavola, il Trittico è una specie di bignami giottesco, un’antologia portatile delle istanze devozionali e figurative dell’officina del maestro nel suo decennio migliore. Chi conosca la scena fiorentina non avrà difficoltà a isolare nelle scenette di Taddeo un’eco non troppo affievolita di invenzioni celebrate di Giotto (e di Maso). Giotto sarebbe morto un anno dopo questo altarolo destinato alla devozione privata.

Sebbene non sia mai riuscita a incolonnarsi tra gli highlight della pinacoteca, la tavola di Taddeo è entrata negli studi dall’ingresso di uno dei più bei saggi del dopoguerra. Due puntate dal titolo rivelatore: «Qualità e industria in Taddeo Gaddi» sono quelle che Roberto Longhi offre a «Paragone», nell’anno di affondi quali il Cavaliere inesistente di Calvino e «La Grande guerra» di Monicelli oltreché, fuori di casa, di «I Quattrocento colpi» di Truffaut e di «Kind of Blue» di Miles Davis. Tutte cose, specie le ultime due, dove il pendolo, anziché oscillare tra qualità e industria, resta inchiodato sulla prima.

Ora bisogna ricordare che, nelle ricerche di primo Novecento sul clan giottesco, Taddeo era passato quasi inosservato. Non vi è dubbio che l’articolessa di Longhi segni il riavvio e, insieme, il culmine della fortuna di un maestro evocato, paradossalmente, soprattutto da storici e italianisti a digiuno di arti belle (il pittore compare, infatti, in celebre una novella di Franco Sacchetti). Ma in un sottopassaggio di questo contributo di resurrezione apparso su «Paragone», il dipinto di Capodimonte (che allora si trovava in Castel Sant’Angelo dove era ricoverato dal 1911) diventa un campione metodologico per insegnare a isolare rimonte, accelerazioni, stagnazioni e cadute di livello in un qualsiasi tracciato creativo, non solo in quello di un pittore primitivo.

Leggiamo: «…senonché poi, forse per l’estrema pochezza della destinazione, l’esecuzione (del piccolo altare) si fa corsiva al punto che il pittore dimentica addirittura di perfezionar l’opera (cosa più strana in quanto la parte del battiloro precedeva di regola quella del pittore); e lascia a mezzo la bulinatura a dischetti nell’orlo della cuspide e vuoti affatto i nimbi dei due santi a mano manca. Qualità e industria vi si affrontano, insomma». E qui finisce la restituzione verbale (e direi quasi fisica) che Longhi offre del dipinto napoletano di Taddeo. Le doti innate dell’occhio incrociano le conoscenze dei materiali guadagnate con il naso sulle opere. Il conoscitore si fonde nel critico e il critico nello storico.

Nel 1959 la Pinacoteca di Capodimonte era stata inaugurata da due anni. I primi ad accorgersene erano stati Longhi e i giovani della sua rivista, vaso comunicante del museo e, per almeno due decenni, suo autorevole bollettino ufficiale. Gli ultimi, neanche a dirlo, fummo noi napoletani, che con le sale del museo continueremo a mantenere un rapporto di rispettoso, affettuoso distacco. Ma intorno a quegli anni, i più sperimentali della nostra critica, avremmo visto un pugno di appassionati incoscienti, cani stracciati senza un lavoro, «passare in rivista» il museo. Letteralmente. Da Capodimonte alle pagine di «Paragone».


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Stefano Causa, 24 settembre 2020 | © Riproduzione riservata

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