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Particolare dell’affresco della Resurrezione di Cristo dipinto da Girolamo Romanino nella Chiesa di Santa Maria della Neve a Pisogne (Bs). Foto Giorgio Azzoni

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Particolare dell’affresco della Resurrezione di Cristo dipinto da Girolamo Romanino nella Chiesa di Santa Maria della Neve a Pisogne (Bs). Foto Giorgio Azzoni

Due storie di Resurrezione: Romanino e Hans Holbein

Nell’iconografia pasquale un Cristo sgraziato in Val Camonica e un rebus da risolvere nell’Inghilterra di Enrico VIII

Stefano Causa e Arabella Cifani

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Romanino? Chiedete a Pasolini


Cristo risorge sgraziato e stortignaccolo nella Chiesa di Pisogne in Val Camonica

Gesù è risorto mille volte nella storia dell’arte. A Brescia fu sull’altare della Collegiata dei Santi Nazario e Celso. Un torso eroico e antico confezionato per il nunzio papale Altobello Averoldi. Per le genti di Pisogne, quaranta chilometri circa da Brescia, l’icona pasquale per eccellenza sta in Santa Maria nella Neve. Cristo sgraziatissimo, stortignaccolo, slogato, il corpo d’una bestia da soma. A distanza di dieci anni l’uno dall’altro, quella del bresciano Romanino è una specie di cover del polittico arcaico moderno di Tiziano. Impegnarsi in una cover è come rilasciare un parere. Critica in atto dinanzi a cui l’unica domanda da evitare (e che facciamo irrimediabilmente tutti) è se sia meglio l’originale.

Che ne pensa di Tiziano, mister Romanino? E lui, quarantasette anni con un figlio di sette, Bonaventura, si mette zitto a dipingere, in primo piano, di scorcio, il sacello vuoto. Intorno il giardinetto di soldati: scomposti, svestiti, con le calzette rosse da risvoltare, che si stiracchiano muovendosi, diciamo così, senza punteggiatura; come fanno tutti quando dormono, mica solo i morti di fame. Ma un pittore innamorato dei giorgioneschi di terraferma difficilmente avrebbe resistito a rendere, sotto i morsi della luce, i bianchi e grigi acciaiati delle armi e degli elmi. Nessuno altro nel 1534 avrebbe potuto dar corpo a una Resurrezione così scostumata mentre fuori, nella piazza del paese, poteva ancora sentirsi l’odore di carne bruciata di otto streghe.

Per Testori Santa Maria della Neve è la «Sistina dei poveri». Definizione utile a risarcire questo Rinascimento acre e umorale della Val Camonica, a patto di rovesciarla immaginando che a Roma, da dove comincia il Sud dell’Europa, ci sia la Pisogne dei Ricchi. Come dire che: se Fabrizio De André è il Bob Dylan de noantri allora, suggeriva risentita Fernanda Pivano, Dylan è il loro De André. Però non è un caso che Pisogne sia l’ultima Thule di scrittori storici e pittori, chi più chi meno nipotini di Roberto Longhi, in esilio sulle strade maestre, irriducibili al Diktat che il Cinquecento sia il secolo di Tiziano, Raffaello o Michelangelo con trascurabili appendici periferiche. Per tutti Romanino è il lato oscuro della luna. Il primo da esplorare.

Un Longhi ventiseienne, che s’inoltrò tra i bresciani del Cinquecento in piena Grande Guerra, lo riteneva il più veneziano della banda. Uno abitato, scrive nel 1916, dal «nuovo demone del colore smosso che tende a trasformarsi in macchia». Ma anche il solo che, appunto per questo, non potesse essere arruolato tra i motorini d’avviamento del naturalismo (almeno non alla stregua di Savoldo o Moretto). Romanino non è un precedente di Caravaggio, semmai di Bernardo Strozzi; anche se (morto Longhi da tre lustri) in una mostra del 1985 sul Caravaggio tenutasi al Museo di Capodimonte a Napoli (circa otto, nove ore da Pisogne) c’era anche Romanino; ma per Guttuso o Pasolini, che tra i camuni ci approdarono negli anni 1960, Caravaggio è la chiave per capire Romanino. Stessa umanità e verità. Uno, appunto, che se non ti metta in allarme o in sospetto, certo non ti lascia indifferente: «Di fronte a Romanino» sbotta il regista di «Accattone»  «si è sempre in un atteggiamento della massima, quasi religiosa attenzione e sempre in uno stato critico, mai di delizia».

E allora: sorta di Giorgione in vernacolo spinto, ricco di umori e sapori nordici, Romanino è un montagnardo di quelli che sapeva raccontare Piero Camporesi (altro storico d’arte di sensibile riflesso). Ma non diverrà mai popolare specie se, oggi, la fama, dentro e fuori i social, si misuri col contagocce del politicamente corretto. Lui, Romanino, era il più scorretto di tutti, se ne fregava e, se non in un salon di rifiutati, starebbe a proprio agio in un contromanuale di storia dell’arte.

[Stefano Causa]

Particolare dell’«Allegoria dell’Antico e Nuovo Testamento con la Resurrezione di Cristo» di Hans Holbein della Scottish National Gallery di Edimburgo

Conoscere per enigmi

La Resurrezione di Cristo come parte del destino dell’umanità in un quadro di Hans Holbein il Giovane

Dice san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi che noi vediamo e conosciamo le cose in modo confuso, per enigmi, come in uno specchio: solo dopo la morte quando saremo faccia a faccia con Dio potremo capire. Ovviamente chi non è cattolico né cristiano né credente può trovare questo pensiero fumoso, scorretto, non condivisibile. Capire che cosa? E incontrare chi? Oltretutto l’idea degli specchi che aveva san Paolo era dettata dalla sua esperienza con oggetti di duemila anni fa che erano in bronzo lucidato e che quindi rimandavano un’immagine davvero confusa e sfuocata. Provate a specchiarvi nelle maniglie delle porte o nelle bottoniere di un ascensore e capirete.

L’arte si è espressa spesso per enigmi e smontarli è uno dei più dolorosi piaceri degli storici dell’arte. Proprio a proposito di enigmi dobbiamo notare che in Italia, soprattutto dal Rinascimento in avanti (ma anche prima in realtà), siamo abituati, in generale, nei dipinti che rappresentano la Resurrezione, a Cristi atletici e muscolosi che risorgono con un salto in elevazione degno di un’olimpiade, sorridenti, pronti per i fotografi e per i social. Nei quadri italiani è tutto chiaro, Cristo se ne va di ottimo umore con un lenzuolo fresco di bucato sulle spalle, le guardie ronfano beate, il sepolcro è aperto, la primavera incombe: non c’è niente da capire, lo dice il Vangelo ed è così e basta.

In Germania no. Non funzionava in questo modo. I tedeschi anche nei quadri non si smentiscono. «L’allegoria dell’Antico e Nuovo Testamento con la resurrezione di Cristo» di Hans Holbein della Scottish National Gallery di Edimburgo ci porta in un’altra landa e in un modo di vedere le cose molto lontano dal nostro. Il quadro è del 1530 circa e in Italia a quel tempo era già successo di tutto. Erano morti Leonardo e Raffaello. Michelangelo, che per i tempi era già considerato quasi vecchio, se ne stava fra Firenze e Venezia dopo aver tentato di difendere la fragile repubblica fiorentina. Il Sacco di Roma di tre anni prima era ancora una ferita sanguinante, il Giudizio Universale della Sistina era ancora da fare. Il Rinascimento già sfioriva. E poi c’era stato Martin Lutero che aveva spaccato l’Europa in due: da una parte i riformati e dall’altra i cattolici: guerre, dibattiti, litigi, scomuniche, omicidi e esecuzioni, tutti credevano di avere la verità in tasca e Gott mit uns.

Noi conosciamo Holbein soprattutto per i ritratti del tempo di Enrico VIII: una folla di elegantissimi cavalieri e dame inglesi, tutti malmostosi, tutti con teste attaccate al collo per un filo. Holbein, nativo di Augsburg, era figlio di un illustre pittore. Viaggiò l’Europa ed entrò presto in contatto con il pensiero luterano. Amico di Erasmo e dello sfortunato Tommaso Moro, fu da lui introdotto alla corte di Londra. Holbein oscillò incerto tutta la vita fra la tradizione cattolica e novità luterane, riuscendo però abilmente a scivolare come un’anguilla fra i due pericolosi fuochi.

«L’allegoria del Vecchio e Nuovo Testamento», oltre a essere una sorta di piano sequenza su tutto ciò che è veramente importante nella Bibbia, è anche un quadro che ha alla base il pensiero controriformato seppur ancora attaccato con cordone ombelicale al cattolicesimo. Opera complessa, anzi, complicata, molto più simile a un rebus che a qualsiasi altra cosa, è spartita in due da un grande albero che ha rami spogli sulla sinistra e fronde verdi sulla destra; a sinistra ci sono anche nuvoloni di tempesta mentre a destra arriva il sereno. Davanti alla pianta è seduto su una pietra un uomo nudo che ascolta il profeta Isaia e san Giovanni Battista (noiosissimi entrambi).

Tutto quello che si svolge a sinistra si riferisce all’Antico Testamento, a destra al Nuovo e il tutto rimanda al pensiero luterano per cui il tempo dell’Antico Testamento è quello del peccato e della pena e il tempo del Nuovo Testamento è la via della misericordia. L’uomo nudo simboleggia l’umanità, e sotto la sua figura una frase di san Paolo commenta, con tipico ottimismo nordico: «Che uomo disgraziato sono! Chi mi libererà da questo corpo soggetto alla morte?». Accanto all’albero della conoscenza c’è la scena del peccato originale. In alto a sinistra, Mosè riceve da Dio i dieci comandamenti, seguono la scena della manna che cade dal cielo e quella del serpente di bronzo. Nella parte inferiore a sinistra sta la morte scheletrita, nuda e cruda. Ma per tutto questo deprimente insieme il profeta Isaia ha soluzione e la indica: la Vergine Maria, che sta su un monte a destra, e che «concepirà e partorirà un figlio».

Effettivamente sulla destra tutto migliora: san Giovanni Battista mostra l’arrivo di Cristo declamando «ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo». Nella parte superiore il Bambino Gesù con una croce discende dal cielo come un razzo e si va a incarnare nella Madonna. Nello sfondo i pastori ricevono il messaggio dell’avvenuta nascita del Salvatore da un angelo e poi Cristo appare una volta crocifisso e un’altra nell’atto di risorgere e di trionfare sulla morte e su Satana calpestando uno scheletro che sembra scrocchiare tutto sotto il suo piede e sotto a cui sta spiaccicato un diavolo tale e quale a un gremlin. Insomma un trailer con tutti gli annessi e connessi.

Questo dipinto allegorico e moralistico è di gusto e ispirazione ancora medievale ed è quindi sempre stato visto come un’eccezione nell’opera di Holbein. Il pittore oltretutto si ispirò a un dipinto che Lucas Cranach realizzò nel 1529 («Il Vecchio e il Nuovo Testamento») oggi nello Schlossmuseum a Gotha, in Germania. Certamente mai in Italia sarebbe venuto in mente a un artista del tempo di fare una cosa simile e Vasari (che al tempo però era solo un ragazzo), avrebbe parlato di «maniera secca e cruda». Sul piano pittorico ci sarebbero effettivamente molte cose da dire e non tutte gradevoli: le figure sono dure, rigide, pesanti, i colori acidi e stridenti, il paesaggio arcaicizzante. Dürer (che era da poco morto al tempo di quest’opera) avrebbe avuto molto da contestare.

È tuttavia importante ricordare che la Resurrezione di Cristo e la Pasqua possono essere viste anche da altri punti di osservazione artistica e quello di questo dipinto tedesco e riformato appare molto significativo. Ci si salva, dice Lutero, per «Sola Scriptura, Sola Fides, Sola Gratia» e la Rivelazione divina può essere compresa solo attraverso la Bibbia. La fede e non le opere ci liberano e solo la grazia di Dio può dare giustificazione per l’umanità. Il concetto complesso della Riforma è riassunto in quest’opera, che appartiene a un «altro Rinascimento» ma che è parte integrante della storia europea. Certo, una sorta di rebus, come abbiamo sottolineato, un quadro enigmatico, ma che tuttavia si può leggere, risolvere e anche capire. Gesù Cristo, magrolino e sciupatello, risorge anche nell’Inghilterra di Enrico VIII dove il quadro fu dipinto. Happy Easter, Frohe Ostern, Buona Pasqua.

[Arabella Cifani]

Stefano Causa e Arabella Cifani, 07 aprile 2023 | © Riproduzione riservata

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