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Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliBraco Dimitrijević dissacra, con ironia, la relazione tra artista, opera, spettatore e convenzioni storiche. Nato a Sarajevo nel 1948, è protagonista di una personale curata da Danilo Eccher, il direttore uscente del Museo, per la Galleria Civica d’arte moderna e contemporanea (Gam) dal 16 marzo al 24 luglio.
Il percorso ne documenta la carriera, iniziata nel 1969 con un paio di lavori eseguiti incidentalmente da due individui inconsapevoli: un cartoncino di latte schiacciato da un automobilista e l’impronta in argilla di un uomo che apre una porta.
La mostra inizia con i «Casual Passer by» del 1971, fotografie di grandi dimensioni ritraenti volti di sconosciuti originariamente collocate in luoghi di rappresentanza per confondere il pubblico, spinto a identificarvi personaggi di spicco. Tali soggetti sono estraniati dal loro contesto mediante l’ingrandimento fotografico che ne muta l’invisibilità sociale in opera d’arte.
Ciò che noi chiamiamo storia, insomma, non è nient’altro che una visione soggettiva e provvisoria imposta al mondo dalla classe dominante, come l’artista ricorda, con un’operazione inversa, nei «Balkan Walzer» del 2004, ritratti di noti compositori dove il vetro è crepato da un colpo di piccone e un peperoncino rosso evoca del sangue. In «Heralds of Post-History» del 1999, ritratti di Wittgenstein, Malevic, Tesla, Kafka, Joyce, Majakovskij e Satie sovrastano invece una montagna di noci di cocco ove sono conficcate delle trombe.
Nella dimensione atemporale dell’arte, lo strumento musicale introduce il concetto di tempo e la noce di cocco quello di caducità. La funzione celebrativa cede il passo a una visione in cui arte, vita e natura si fondono e a un momento in cui non potrà più esistere un’unica verità.
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