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La Galleria Fumagalli inaugura il nuovo anno con «Teoria delle apparenze», una personale di Giulio Paolini curata da Angela Madesani e Annamaria Maggi. Dal 16 gennaio al 14 aprile la mostra riunisce opere realizzate dal 1969 al 2015, in un’approfondita ricognizione del suo lavoro sin dagli esordi, quando Paolini faceva parte, seppure in una posizione autonoma e defilata, del gruppo dell’Arte povera. Già allora (e prima ancora, al suo debutto, con la piccola tela «Disegno geometrico» esposta nel 1961 al XII Premio Lissone) Paolini esplorava la struttura della visione e lo spazio della rappresentazione, facendo riferimento alla prospettiva e alla matematica.
Dalla fondamentale opera «Teoria delle apparenze», 1972, che dà il titolo alla mostra, a «Equivalenze», 1975, anch’essa esposta qui, Paolini (nato a Genova nel 1940 ma torinese sin dall’infanzia) ci pone di fronte a riproposizioni virtuali dello spazio, quasi che ogni sua opera diventasse una scatola capace di contenere tutte le opere passate e future. Non è un caso che la più precoce in mostra, «Quam raptim ad sublimia» (Quanto prima verso il sublime), 1969, mutui il titolo da un’incisione del pavimento dei Musei Vaticani: la storia dell’arte e la classicità costituiscono, da sempre, un fondamento del suo operare.
Nella circolarità del tempo messo in atto nei suoi lavori, Paolini introduce calchi di sculture (spesso a coppie, in un’indagine sul tema del doppio) e omaggi a maestri del passato remoto e prossimo, da Lorenzo Lotto a de Chirico, mentre dagli anni Ottanta mette in gioco la dimensione teatrale (qui, tra gli altri, «Comédie Italienne», 1984) e, più di recente, affronta il tema dell’identità dell’autore e della sua contemporanea condizione di spettatore.

Giulio Paolini, «L’Indifférent», 1992, assemblage, cavalletto, riproduzione fotografica, plexiglas, 229,9x130,2x180 cm
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