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Fondazione Brescia Musei-Fbm riallaccia la sua fortunata collaborazione con Palazzo Tosio|Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Brescia, presentando nelle sue sale il dipinto «La Nuda» di Giacomo Grosso (1860-1938), entrato nel 1946 nelle raccolte bresciane dalla raccolta privata in cui era conservato. Non il dipinto, famosissimo, che appartiene alla Galleria d’Arte Moderna-Gam di Torino, esposto dal pittore alla Triennale torinese del 1896, ma una derivazione molto simile all’originale, restaurata nel 2023 e ora presentata al pubblico dal 3 giugno fino a novembre, con la curatela di Giulia Paletti. Inutile dire che quando Giacomo Grosso, già famoso e reduce dal successo alla Biennale di Venezia del 1895 (la prima), presentò alla mostra torinese il grande dipinto oggi alla Gam, la reazione della città, che allora più che mai coltivava la pruderie come un bene non negoziabile, fu scandalizzata. Per tutti, vale l’anatema lanciato dall’autorevolissimo critico Giovanni Cena, indignato per l’evidente volontà dell’artista di solleticare la morbosità del pubblico con questa più che sensuale figura di donna.
Stesa su una gigantesca, soffice pelle d’orso bianco, la modella (il titolo originario era «Nuda», poi divenne «La Nuda» per antonomasia), con le sue forme gloriose e la pelle di seta, le morbide fossette sul bacino e le labbra leggermente dischiuse sui denti lucenti, si volge verso l’osservatore con uno sguardo d’invito. Le ragioni per indignarsi, per la morale bacchettona del tempo, c’erano sicuramente ma poiché alla fine lo scandalo si trasformò in un (prevedibile) successo, il pittore ci prese gusto e incominciò a sfornare sempre nuove «Nude», in piedi o sdraiate, di scorcio o di schiena, una delle quali (la più simile alla «capostipite») è ora esposta a Brescia.
La provocazione erotica è del resto praticata da sempre, e specialmente in epoche di repressione morale: trent’anni prima di Grosso, nel 1866, Gustave Courbet, pittore di ben altra caratura, aveva realizzato (in questo caso, però, su commissione) per il diplomatico turco-egiziano Khalil-Bey (1831-79) uno dei dipinti più audacemente erotici che si conoscano, quell’«Origine du monde» che riproduce, scorciato dal basso, il bacino nudo, il ventre e parte del busto (ma non il volto) della modella, con un close-up sui genitali. Quando il committente, gran giocatore d’azzardo, ebbe un rovescio di fortuna per i suoi debiti, il dipinto finì sul mercato e, dopo alcuni passaggi, nel 1955 non a caso entrò nella raccolta dello psicanalista Jacques Lacan, per transitare poi in un’altra collezione da cui sarebbe passato allo Stato francese con la formula della «dation», cioè il pagamento con opere d’arte delle tasse di successione.
«Épater les bourgeois», sbalordire e provocare i borghesi, con le loro convenzioni stantie, era (e spesso è tuttora) la strada per ottenere un successo di scandalo. E così fu, seppure in un dominio totalmente diverso, di segno mentale e concettuale, con gli «objets trouvés» di Marcel Duchamp, quegli oggetti feriali prelevati dal mondo reale e assurti a opera d’arte per effetto della decontestualizzazione effettuata dall’artista. Duchamp ne realizzò più d’uno, dalla «Ruota di bicicletta» allo «Scolabottiglie», ma il più famoso resta l’orinatoio di porcellana diventato, nel 1917, l’opera d’arte «Fountain» grazie alla presenza della firma («R. Mutt»): il più famoso, anche perché, a differenza degli altri, atteneva anch’esso alla sfera dell’«osceno».