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Maria Vittoria Baravelli
Leggi i suoi articoliCi sono oggetti che nascono per essere usati e altri che nascono per essere amati. Le scarpe di Manolo Blahnik appartengono a entrambe le categorie: si indossano, ma prima di tutto si contemplano. Sono architetture leggere e sensuali, nate dal dialogo tra il corpo e la mente, tra la grazia e la misura, tra la moda e l’arte.
Blahnik, nato nel 1942 a Santa Cruz de la Palma da madre spagnola e padre ceco, cresce in una casa dove l’eleganza è una lingua quotidiana. La madre disegnava scarpe e le faceva realizzare da artigiani locali: lui, bambino curioso e osservatore, imparava che la forma è un atto d’amore, un equilibrio tra rigore e fantasia. Dopo gli studi a Ginevra e un passaggio a Parigi nel mondo del teatro e della scenografia, si trasferisce a Londra. È lì che nel 1969 incontra Diana Vreeland, la leggendaria direttrice di «Vogue America», che osservando i suoi schizzi gli dice: «Young man, concentrate on the extremities and make shoes!», («Giovanotto, concentrati sulle estremità e fai scarpe!»). Nel 1970 apre il suo primo negozio a Chelsea, a Londra, e da quel momento Manolo inizia a costruire un mondo tutto suo, fatto di linee e di sogni, carta e raso, tacchi come colonne sottili.
Ogni sua scarpa nasce da un disegno, tracciato rigorosamente a mano. Nulla è delegato: Manolo segue il taglio, la curvatura, la piega del raso, il peso del tacco. Le sue creazioni parlano con Velázquez, Goya, Watteau, Picasso; citano mosaici bizantini, Barocco, tessuti orientali. È un lavoro lento, ossessivo, quasi rinascimentale. Gli acquerelli dei suoi modelli sono diventati opere esposte nei musei, dal Victoria & Albert Museum al Prado, a testimoniare che anche l’arte applicata può diventare pura arte.
A Milano, Blahnik trova una sintesi perfetta tra memoria e modernità. Nella boutique di via Pietro Verri, il decoro a piastrelle bianche e nere riprende quello della casa della madre nelle Canarie: un dettaglio personale trasformato in simbolo, come se ogni passo racchiudesse un ricordo d’infanzia. Nel 2019 acquisisce il centro produttivo RE Marcello di Vigevano, innestando la sua visione su una tradizione artigianale storica. Milano, per lui, è anche il piacere del camminare: tra gallerie, mostre e conversazioni.
Il suo universo è popolato di affetti e complicità. Con Fran Lebowitz condivide l’ironia e l’allergia al banale; con i fotografi Helmut Newton, Irving Penn, Peter Lindbergh, le sue scarpe diventano linguaggio visivo, definiscono la postura e la scena. Non sono accessori: sono segni. Manolo ama profondamente i cani. Li chiama come imperatori del passato. Sono compagni discreti, buffi e leali, presenze affettive che riportano la vita alla sua misura giusta.
Il cinema ha contribuito a trasformarlo in mito. Da «Sex and the City» («These are my Manolos!»), alla Versailles pastello di «Marie Antoinette» di Sofia Coppola, passando per Pedro Almodóvar e Luca Guadagnino, le scarpe di Blahnik sono diventate simboli di libertà, desiderio e ironia. Nel documentario «Manolo: The Boy Who Made Shoes for Lizards» (2017) di Michael Roberts, la sua voce appare per quella che è: colta, ironica, piena di meraviglia. Un uomo che si emoziona davanti a una stoffa o al muso del suo cane, che cita architetti e pittori, e che ancora oggi disegna ogni modello a matita e acquerello.
Nell’autunno 2025, il Victoria & Albert Museum gli dedica una collaborazione speciale: «Marie Antoinette Style», curata da Sarah Grant, la prima mostra nel Regno Unito a esplorare la figura della regina come icona di stile e di immaginario. Blahnik, che sostiene il progetto della mostra di Maria Antonietta, celebra così una fascinazione che dura da tutta la vita: da bambino, sua madre gli leggeva la biografia di Stefan Zweig come favola della buonanotte. Da allora, Maria Antonietta non lo ha mai abbandonato: la sua idea di femminilità, tra fragilità e potere, permea molte delle sue collezioni. Non a caso, Manolo fu entusiasta di creare le scarpe per i costumi premiati con l’Oscar di Milena Canonero nel film di Sofia Coppola del 2006. La mostra presenta modelli artigianali ispirati alla regina, bozzetti e disegni inediti che per la prima volta svelano il processo creativo. È un ritorno alle origini, perché le prime tinte pastello di Blahnik nacquero proprio studiando le calzature del XVIII secolo negli archivi del V&A.
«Sono ossessionato da Marie Antoinette da che ho memoria. Mia madre, che la adorava, mi leggeva Zweig da bambino, tralasciando, ovviamente, la ghigliottina. Quando Milena Canonero mi chiese di disegnare le scarpe per il film di Sofia Coppola fu un privilegio. Le realizzai a mano in Inghilterra, con le più squisite sete di Lione di Claremont e con ricami inglesi di Stephen Walters. Rosette e sete le sfrangiai io stesso: sapevo istintivamente come dovevano essere, mentre il diktat di Canonero “non essere accademico” mi risuonava nelle orecchie», racconta.
Dopo oltre cinquant’anni di carriera, Blahnik rimane uno dei designer più influenti del mondo. Il suo marchio conta ventuno boutique monomarca, tra cui il flagship di Madison Avenue a New York, ed è distribuito in oltre 270 punti vendita in trenta Paesi. Nel 2007 la regina Elisabetta II lo ha nominato CBE-Commander of the Order of the British Empire per il contributo alla moda britannica. Nel 2021 ha lanciato «The Manolo Blahnik Archives: A New Way of Walking», una mostra virtuale interattiva sui suoi archivi, arricchita nel 2023 da una sezione dedicata al dietro le quinte dell’atelier italiano. Nel 2024 la sua azienda è stata riconosciuta da Great Place to Work tra i migliori luoghi di lavoro nel Regno Unito, a conferma di un ambiente fondato su creatività, passione e collaborazione.
Blahnik non ha mai ceduto alla logica industriale della moda: lavora con lentezza, devozione, ossessione felice. Ogni scarpa è una miniatura di architettura, una scultura che ci ricorda quanto la leggerezza abbia sempre bisogno di una solida struttura. Forse il suo segreto è tutto qui, nel credere che la bellezza non serva a nulla, e proprio per questo sia, di questi tempi, davvero indispensabile.
Scarpe realizzate da Manolo Blahnik dalla «Marie Antoinette Capsule»
Scarpe realizzate da Manolo Blahnik dalla «Marie Antoinette Capsule»
Che cos’è per lei la bellezza, signor Blahnik?
Per me è molto difficile spiegare che cos’è il bello. La bellezza potrebbe essere un equilibrio, un’armonia tra immaginazione e disciplina visiva. Non ha a che fare con la perfezione, ma con l’emozione.
Perché pensa che le scarpe siano così importanti? Rispetto a un abito o a un gioiello, sembrano esercitare un potere quasi invisibile ma decisivo sull’identità di chi le indossa.
Le scarpe non sono semplici accessori. Hanno il potere di trasformare il modo in cui ti senti e il modo in cui ti muovi. Una scarpa bellissima cambia la postura e, cosa ancora più importante, la sicurezza in sé… può alterare completamente la tua presenza. C’è qualcosa di quasi alchemico in questo: il modo in cui un paio di scarpe può ridefinire silenziosamente l’identità di chi le indossa, sia fisicamente che emotivamente.
C’è differenza tra disegnare per camminare e disegnare per sognare? In fondo le sue scarpe sembrano fatte per i passi quanto per l’immaginazione.
Le due cose vanno di pari passo. Le mie scarpe sono pensate per essere vissute e per accompagnare la vita reale, non solo le fantasie. Il comfort è essenziale: per essere eleganti bisogna stare comodi. Ma devono anche avere un tocco di magia, un senso di straordinario. Io disegno per il movimento, certo, ma anche per i sogni. La scarpa giusta ti permette di fare entrambe le cose allo stesso tempo.
Ha iniziato in teatro, tra scenografie e costumi. Quanto di quell’esperienza sopravvive ancora oggi nel modo in cui immagina una scarpa?
Sognavo di lavorare come scenografo teatrale, e quando mostrai i miei bozzetti per «Sogno di una notte di mezza estate» a Diana Vreeland, furono i sandali di Ippolita ad attirare la sua attenzione… erano adornati di edera e ciliegie. Lei disse: «Giovanotto, lei dovrebbe fare scarpe!». Quel momento cambiò tutto. Con il suo incoraggiamento ho trasformato il mio amore per i costumi e per il racconto in una ricerca, lunga tutta una vita, intorno alle scarpe.
Sua madre le ha raccontato la storia di Maria Antonietta come una favola, tralasciando la ghigliottina… È da lì che nasce la sua fascinazione per la bellezza fragile? Perché ama così tanto Maria Antonietta?
Da bambino, mia sorella ed io guardavamo il film del 1938 «Marie Antoinette» con Norma Shearer e ne eravamo incantati. Mia madre ci leggeva, prima di dormire, la biografia di Stefan Zweig, saltando ovviamente le parti più spaventose. Ero stregato dallo splendore di Versailles… i balli, i veli di seta, i broccati. È lì che è cominciata la mia fascinazione. Con il tempo ho scoperto la sua fine tragica e ho iniziato a vederla come una donna fraintesa… una vittima del suo tempo. Sofia Coppola ha colto magnificamente il suo spirito giovanile nel film del 2006, e per me è stato un sogno poter disegnare le scarpe per quella pellicola. Ho affrontato il progetto mescolando ricerca e gioco, fondendo storia e fantasia. Il mio paio preferito sono le scarpe rosa con rosette indossate da Kirsten Dunst in una scena famosa. Ora sono esposte al V&A di Londra. In seguito ho creato una collezione ispirata a lei, a quel mondo di grazia e contraddizioni. Ciò che mi entusiasma di più è l’idea che una nuova generazione possa riscoprire Maria Antonietta attraverso la moda, così come è successo a me tanti anni fa.
Lei e Fran Lebowitz condividete uno sguardo ironico sul mondo e un’avversione per la banalità. Anch’io la adoro. Che tipo di amicizia è stata invece quella tra lei e Paloma Picasso?
Ah, Fran! La adoro. È una delle poche persone che riesce a farmi ridere di cuore. La sua arguzia è affilata come un rasoio, ma sempre intelligente, mai crudele. Condividiamo quell’allergia alla banalità, sì… al comune, al prevedibile. La vita dovrebbe avere gusto, non trova? Lei mi ricorda che umorismo e intelletto sono le cose più eleganti che una persona possa possedere. Ho conosciuto Paloma quando eravamo adolescenti, era una giovane donna radiosa con fiori di cristallo tra i capelli. Siamo diventati amici all’istante. Condividevamo un background simile, entrambi figli di culture e lingue diverse. È di una simpatia travolgente… a Londra andavamo a tutte le feste, ballavamo tutta la notte. Paloma ha avuto anche un ruolo determinante nella mia carriera: è stata lei a presentarmi a Diana Vreeland nel 1970. Quell’incontro ha cambiato tutto per me.
In che modo i maestri del passato, i grandi pittori e artisti, l’hanno aiutata a plasmare la sua estetica? Può fare qualche nome?
L’arte è sempre stata la mia più grande maestra. Sono infinitamente ispirato dai pittori… dalla grandezza del XVII secolo alla purezza moderna di Calder, Matisse e Picasso. La geometria di Mondrian è entrata nei miei motivi; l’eleganza rococò di Gainsborough, Hogarth e Watteau ha influenzato le mie creazioni per Maria Antonietta. Goya, naturalmente… le sue scarpe sono straordinarie. Ho passato ore al Prado a studiare le sue pennellate. E Zurbarán, per la sua austerità, la sua luce, le sue texture e la sobrietà monastica dei suoi tessuti. Quelle lane pesanti e quei tweed nel mio lavoro vengono spesso direttamente da quelle immagini. Questi artisti sono compagni costanti nella mia vita creativa.
Anche i fotografi hanno contribuito a formare il suo mondo… Newton, Bailey, Penn, Lindbergh. C’è un’immagine cui si sente particolarmente legato?
David Bailey è un caro amico fin dagli anni Settanta. Mi ha fotografato per la copertina di «British Vogue» nel 1974… insieme alla meravigliosa Anjelica Huston, con lo styling di Grace Coddington. Abbiamo scattato in esterna, in Corsica, e ricordo che avevo portato il mio guardaroba… fu tutto molto spontaneo e pieno di gioia. Ci siamo divertiti immensamente. Quel viaggio rimane uno dei miei ricordi più cari, e da allora io e Bailey ne abbiamo condivisi molti altri. Sono stato straordinariamente fortunato a collaborare con così tanti fotografi eccezionali: il signor Penn, il signor Newton, il signor Lindbergh… ognuno di loro mi ha ispirato in modo incommensurabile. Un momento particolarmente significativo nella mia carriera è stato quando il grande Cecil Beaton ha illustrato la mia campagna del 1979. Avevo venerato il suo lavoro sulle pagine di «Vogue» fin da ragazzo. Avere lui che interpretava i miei modelli è stato un sogno che diventava realtà. Era, semplicemente, un vero artista… un uomo di visione impeccabile e gusto squisito.
C’è un oggetto che porta sempre con sé, o che tiene in una delle sue case, e che la rappresenta? Qualcosa che contiene una storia, come un piccolo talismano di memoria?
Qualcosa che ho sempre con me è il mio profumo, «Knize Ten». È lo stesso che usavano mio padre e mio nonno. Mi ricorda il mio passato. Momenti di felicità con la mia famiglia.
Un libro che tutti dovrebbero leggere?
Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa… lo adoro. Tutti dovrebbero leggere anche L’educazione sentimentale di Flaubert, i grandi romanzi di Dostoevskij, il mio preferito è L’adolescente; coglie la passione, la confusione e l’intensità creativa della giovinezza… e qualsiasi cosa scritta da Mary Beard. Potrei parlare di libri all’infinito… sono i miei compagni più fedeli.
Dopo più di cinquant’anni di carriera, lei disegna ancora ogni scarpa a mano. È un gesto di fedeltà all’artigianalità, o un modo per rimanere vicino al sogno? (Come curatrice d’arte, le confesso che ucciderei per possedere uno di suoi schizzi!)
Disegno sempre a mano… è lì che tutto comincia. Le nostre scarpe sono realizzate a mano in Italia, e quel lavoro d’amore, quella cura per il dettaglio, sono l’essenza stessa della qualità. Ho quaderni di schizzi ovunque… spesso disegno di notte, quando non riesco a dormire. Tutti i miei materiali da disegno vengono da Green & Stone, a Chelsea, un luogo che per me è come casa.
Il suo rapporto con il cinema?
Il cinema è una delle grandi arti… un universo di immaginazione. Come la letteratura, è una forma di fuga e di ispirazione. Adoro il cinema muto degli anni Venti e poi la golden age di Hollywood negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta: «Breve incontro», «Eva contro Eva», «La fiamma del peccato»… Barbara Stanwyck era splendida. Amo molto anche Pedro Almodóvar… una narrazione tanto vibrante. Ma il mio preferito in assoluto è «Il Gattopardo» di Visconti. Quando uscì, andai a vederlo ogni pomeriggio per una settimana. È magnifico… la perfetta unione di immagine, musica ed emozione.
Le piastrelle bianche e nere, un ricordo della cucina di sua nonna. Che cosa ricorda di quel luogo? Un profumo? Una Sensazione? Una nostalgia?
Le pareti a scacchi bianchi e neri del nostro nuovo negozio di Milano sono un omaggio alla cucina di mia nonna, in Spagna… un luogo pieno di calore e risate. Abbiamo reinterpretato quel ricordo attraverso uno sguardo milanese, creando uno spazio che sembra al tempo stesso nostalgico e raffinato. È un modo per tenere vive quelle memorie così preziose.
Scarpe realizzate da Manolo Blahnik dalla «Marie Antoinette Capsule»
Scarpe realizzate da Manolo Blahnik dalla «Marie Antoinette Capsule»