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Rica Cerbarano
Leggi i suoi articoliL’opera di John Baldessari (California, 1931-2020) possiede una qualità rara: quella di «solleticare il cervello». Mescolando l’estetica della Pop Art con lo spessore intellettuale dell’Arte Concettuale, l’artista californiano ha dato vita, nel corso della sua carriera pluridecennale, a opere che instaurano un rapporto unico con lo spettatore: stimolano il pensiero critico senza ingannarlo con facili certezze, ma nemmeno sottovalutandone la capacità di comprensione. Guardare una sua opera provoca un’esplosione di connessioni neurali, un Big Bang cognitivo, e sorprende che gli effetti siano intatti anche a più di cinquant’anni di distanza. Che il suo lavoro riesca ancora a scuotere le nostre abitudini percettive, ci mette davanti a due possibilità: o è stato talmente innovativo da raggiungere una dimensione atemporale, apice del fare artistico, o nessuno dopo di lui ha saputo incarnare in maniera così lucida la riflessione sul vedere in chiave postmoderna.
A questa figura pionieristica è dedicata la mostra «John Baldessari: No Stone Unturned. Conceptual Photography» (fino al 23 novembre), con cui la Fondazione Querini Stampalia riapre dopo il restauro. Sotto la guida della nuova direttrice Cristiana Collu, la scelta di inaugurare con una monografica di Baldessari, e incentrata sulla fotografia, è una chiara dichiarazione d’intenti.
La mostra si articola in dieci sale e presenta 68 opere, tra cui fotografie, video, disegni, oltre a una selezione di «ephemera» (note, schizzi e snapshot che ritraggono l’artista). Nessun ordine cronologico o tematico, nessuna didascalia che accompagna le opere, le quali coprono un arco temporale di circa trent’anni, dalla fine degli anni Sessanta ai primi Duemila. Un percorso eterogeneo che si dispiega per pieni e vuoti, con un’unica costante: l’immagine fotografica. Scomposta, spezzettata, ricucita. Censurata, ripetuta, dissacrata. Un’immagine verbalizzata, che nella relazione con lo spazio costruisce una grammatica dove la punteggiatura è il ritmo con cui il visitatore si ferma a osservare le opere, incuriosito dall’abilità di Baldessari nel far vedere oltre la rappresentazione. Non conta ciò che la fotografia mostra, ma come lo fa. Sono la forma, la relazione, il posizionamento nello spazio a diventare sintassi. Non serve comprendere, ma lasciarsi attraversare. Questo sembra dirci Baldessari, ed è quello che anche la curatela vuole trasmettere, assecondando l’approccio dell’artista che non ha mai amato i testi esplicativi accanto alle sue opere. Il consiglio è di comportarsi come si fa per boschi, mettendosi in ascolto in cerca dell’intuizione più che di una spiegazione. È una mostra che invita a passeggiare e a fermarsi di tanto in tanto, solo quando un punto esclamativo nasce in noi. E questa analogia con la grammatica non è un caso. Baldessari amava scrivere, appuntare parole ed elenchi, come quello da cui deriva il titolo della mostra. Il linguaggio verbale era per lui uno strumento primario per decifrare i codici visivi della realtà, forse ancora più di pittura e fotografia.

John Baldessari, «Kissing Series: Susan. Nose Touching Building; Palm Frond», 1975. © John Baldessari 1975. Courtesy Estate of John Baldessari © 2025. Courtesy John Baldessari Family Foundation; Sprüth Magers
Tra i lavori in mostra, troviamo la «Kissing Series» (1975), opera esemplare del processo di decodificazione delle immagini. Qui, grazie alla prospettiva, i piani dell’inquadratura si intersecano annullando la profondità, e danno vita a un contatto impossibile ma immaginato, che si traduce in un bacio appena sfiorato. In «Blasted Allegories» (1978), invece, frame televisivi sono accompagnati da parole, frecce e segni grafici che compongono delle «tavole analitiche», fotosintagmi che cercano di estrarre un significato in fin dei conti impossibile da afferrare.
Non manca la celebre «Commissioned Painting» (1969), nata da una doppia critica: al Concettualismo che, nelle parole del pittore Al Held, «si limita a indicare le cose», e all’Espressionismo Astratto, che mitizza l’artista. A partire da queste controposizioni, Baldessari fotografò la mano di un amico nell’atto di indicare svariati oggetti, poi incaricò pittori dilettanti di copiare le fotografie, e sotto ogni opera fece scrivere «Un dipinto di…» seguito dal loro nome. Le opere finali sollevano domande sulla paternità artistica e sul culto dell’autore.
Ironia e riflessione convivono anche in «I Will Not Make Any More Boring Art» (1971), una delle videoperformance più famose dell’artista, nata dal coinvolgimento degli studenti del Nova Scotia College of Art and Design. Invitato a esporre in questa università, ma impossibilitato a presenziare per mancanza di fondi da parte dell’istituzione, chiese agli studenti di scrivere ripetutamente sulle pareti della galleria la frase «Non farò più arte noiosa». Un’azione semplice ma incisiva, con cui l’artista criticava il sistema educativo che privilegia l’imitazione alla sperimentazione. Baldessari ne realizzò poi anche una versione su videocassetta, presentata nell’esposizione.
L’intera mostra è punteggiata dai collage «scultorei» realizzati da Baldessari negli anni Novanta, come «Two Birds (Feeding): Playthings/Nature/Passer-by/Money (with Lamp)» (1992) e «Flying Saucer: Rainbow/Two Ciclysts/Dog/Gorilla and Bananas/Chaotic Situation/Couple/Tortoise/Gunman (Fallen)» (1992). In queste opere, la dimensione installativa acquista rilievo: ritagli fotografici si animano in composizioni dinamiche, evocando suggestioni dadaiste e duchampiane. Il fotomontaggio viene portato all’estremo, con accostamenti di immagini che assumono forme inaspettate, lontane dalla tradizionale cornice rettangolare. Le immagini riassemblate, ancora intatte pur nel loro essere frammento, si espandono sulla parete come tentacoli. E in questo slittamento, l’artista sostituisce al fascino della decodificazione quello della poesia. Nel tentativo di decostruire la retorica delle immagini, Baldessari ha creato un nuovo lessico visivo che sgretola le nostre convinzioni, sollecitando un rapporto fisico con ciò che vediamo. Camminando tra le sale espositive, lo sguardo si alza, si abbassa, cerca il dettaglio, segue la disposizione fluida delle opere a parete. Nell’epoca della smaterializzazione, l’attenzione è riportata alla matericità della percezione. Ci viene ricordato che, in fondo, immagini e parole sono fatte di carne. La nostra.

John Baldessari, «Blasted Allegories (Colorful Sentence): Closing Pen Cold Fact», 1978. © John Baldessari 1978. Courtesy Estate of John Baldessari © 2025. Courtesy John Baldessari Family Foundation; Sprüth Magers