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Anna Aglietta
Leggi i suoi articoliA Monopoli, dall’8 agosto al 16 novembre, torna PhEST, festival di fotografia internazionale sotto la direzione artistica di Giovanni Troilo e la curatela fotografica di Arianna Rinaldo. Il tema di questa decima edizione, «This Is Us - A Capsule to Space», è un viaggio attraverso lo spazio e il tempo, uno spaccato di quello che è la società umana contemporanea. Non è quindi una sorpresa che la mostra madrina del festival sia dedicata a Martin Parr, uno dei fotografi che ha dato più voce alle ambivalenze che ci contraddistinguono.
«La scelta di Parr nasce da questa sua capacità unica di raccontare l’essere umano nelle sue contraddizioni, nei suoi sogni, nelle sue paure, e di restituirne un’immagine sorprendente, profonda e spesso irriverente», spiega Troilo.
Con una selezione di 50 immagini, esposte nell’ex-monastero di San Leonardo, PhEST offre al pubblico l’opportunità di ripercorrere la carriera di Parr, dalle prime fotografie in bianco e nero ai celebri scatti nelle spiagge, passando per i ritratti della classe media e per le serie di condanna all’iperturismo. In occasione di quella che è la sua prima mostra pugliese, ci siamo seduti con lui per chiacchierare di fotografia, tecnologie e del futuro.
Come mai ha scelto la fotografia?
Sono sempre stato affascinato dalla fotografia: è quasi magica, ho sempre saputo che sarei diventato un fotografo. Ho un desiderio costante di mostrare tutto ciò che trovo interessante, entusiasmante. Il bisogno di documentare le cose che mi attraggono è sempre presente e la fotografia mi permette di definire la mia relazione con il mondo.
Utilizza spesso il termine «propaganda» per definire le immagini che ci circondano e con cui interagiamo. Cosa intende con questa parola? E in che modo il suo lavoro risponde ed entra in relazione a questa propaganda?Siamo continuamente confrontati con immagini in cui tutto è perfetto. Se è moda, i modelli sono belli; se è cibo, tutto appare immacolato; se sono immagini di viaggio, non mostrano nulla delle difficoltà della destinazione… Essenzialmente, tutto quello che ci viene raccontato è una bugia. Il mio lavoro è di uscire per strada e mostrare alle persone com’è davvero il mondo. Ci tengo però a precisare che, anche se il risultato ha sicuramente un valore documentario, io sono nel business dell’intrattenimento, dell’entertainment.
L’arrivo delle nuove tecnologie, di internet e dei social media ha avuto un impatto sul suo lavoro?
Il cambiamento principale nel mio lavoro è stato il passaggio al digitale nel 2008, con un notevole miglioramento della qualità delle macchine foto. Da allora, non ho più usato l’analogico… di certo non mi mancano tutti quei prodotti chimici terribili da camera oscura! Un altro impatto importante è stato l’arrivo dei social media, che ha sicuramente cambiato la mia relazione con il pubblico. Adesso, con il mio team, li usiamo molto per creare un interesse sul mio lavoro e siamo riusciti a creare una base di moltissimi followers. In questo modo, al giorno d’oggi, le persone possono iniziare a interessarsi alla fotografia senza dover andare in galleria o in un museo, come si doveva fare in passato. E gli artisti possono farsi conoscere in modo indipendente, senza intermediari.
Nel suo lavoro, lei mescola il realismo estremo con il paradosso e il ridicolo, la bellezza e il kitsch, unendo punti di vista apparentemente opposti. Come riesce a ottenere questo risultato?
Succede in modo naturale, senza sforzi. Non è difficile trovare il kitsch nella nostra società, è ovunque: non ho bisogno di andare a cercare dei soggetti specifici per le foto. Mi circondano, sono sempre presenti.
Qual è la sua relazione con i soggetti delle immagini?
Mi piace fotografare le persone come le trovo. In realtà non interagisco con la maggior parte delle persone che fotografo, sono semplicemente presenti nei luoghi che visito, come ad esempio mete turistiche o di vacanza. Di solito, se poi vedono l’immagine, la apprezzano, sono felici di essersi fatti ritrarre. In molti mi scrivono addirittura per averne una copia.
Ci sono nuovi progetti in cantiere al momento?
Sto lavorando a un progetto sul villaggio di Lacock, nel Wiltshire, nella cui abbazia Fox Talbot ha inventato il primo negativo, quindi un luogo molto importante nella storia della fotografia. In particolare, sto realizzando dei ritratti contemporanei delle persone che vivono nel paese. Inoltre, un obiettivo importante a cui sto lavorando molto, è quello di assicurare la sostenibilità della Fondazione Martin Parr anche quando non me ne occuperò più personalmente.
La missione della fondazione è quella di sostenere fotografi emergenti e affermati con una visione non convenzionale. Perché ha deciso di istituirla? E come si concretizza questa missione nei fatti?
Ho deciso di creare una fondazione dedicata a sostenere artisti locali perché nessun altro se ne stava occupando. Ci concentriamo in particolare su fotografi che sono stati ignorati, trascurati, spesso anche con una lunga carriera. Offriamo borse di sostegno, o li aiutiamo nella promozione e diamo loro accesso a una piattaforma per farsi conoscere. E così facendo, stiamo costruendo una collezione importante di artisti britannici e irlandesi. L’unico criterio di selezione? Che siano bravi.

Martin Parr, «The Leaning Tower of Pisa, Pisa, Italy», 1990

Martin Parr, «Benidorm, Spain», 1997