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Stefano Causa
Leggi i suoi articoliCosì intenerito, spassoso e pieno di indulgenza per le debolezze e le stronzerie del mondo il Queneau degli anni Cinquanta val bene un’estate. «Meraviglioso» lo diceva l’attrice Danielle Darrieux e quest’aggettivo, che non significa il resto di niente, per una volta va preso alla lettera. Il Queneau anni Cinquanta è davvero uno scrittore meraviglioso. Certo bisogna dimenticare che, per noi, quelli sono stati gli anni del realismo (con e senza neo), dell’edificazione del mito del Caravaggio, gli anni di Guttuso, del moralismo militante, di due dozzine di film importantissimi, del calvinismo del Barone rampante e dell’insularità come stato d’animo del Gattopardo. Immaginiamo, invece, di conservare, dal naufragio del dopoguerra, due libri soli. La domenica della vita (1952) e, a saldo di decennio, Zazie nel metrò. Sono i romanzi brevi precipitati nelle nostre ferie d’agosto e non sono italiani.
Queneau da noi è stato traghettato anche da Longanesi e da Einaudi (che per la copertina di Zazie adotta Miró). A tradurlo si accingono impavidi come Giuseppe Guglielmi e Franco Fortini (la letteratura degli anni Sessanta si misura anche dalle vulgate di uno scrittore intraducibile per definizione e, dunque, il primo da tradursi). Risintonizzarsi con il Queneau di Zazie e del clan della Domenica della vita equivale a sentire qualcosa di vicino alla felicità. Strafottenza, battute, calembours, salti doppi lessicali, linguaggi e vernacoli stressati.

«Zazie nel metro», un fotogramma dal film di Louis Malle del 1960
Lo sperimentalismo si mette al servizio di plot scoppiettanti giusto a metà di un secolo che il piacere della lettura ha osteggiato. Il lettore va educato, ammaestrato, orientato. Chi goda è colpevole. Nel 1951 il Visconte dimezzato di Calvino aveva implicitamente omaggiato Queneau nello sforzo (che la cultura italiana centra sì e no una volta su cento) di divertire il lettore. E come sa chi è cresciuto con I fiori blu sul comò, Queneau Calvino lo ha tradotto e, a modo suo, emulato. Zazie è una stronzetta. Dice parolacce, è spiazzante, non si piega, se ne frega. Il Sessantotto è Zazie, con discreto anticipo. Discesa alla stazione in un giorno e mezzo mette a frutto la poetica dello sgonfiamento (di Parigi la incuriosisce il metrò, che non vedrà mai perché in sciopero. Vogliono portarla alla tomba di Napoleone: «Napoleone un c…, non m’interessa niente quello sgonfione, con quel suo cappello da fesso».
Per l’edizione economica 1964, a 300 lire, la Mondadori inventa una copertina con su scritto «ragazza tutta pepe», con una definizione che dovrebbe assimilare questa scassinatrice del linguaggio all’innocua interprete della pappa al pomodoro, del datemi un martello e di Gian Burrasca. Zazie naturalmente non ha nulla delle preadolescenti del tempo delle mele; e men che mai di Rita Pavone.
Semmai l’umanità variopinta, un poco spaesata e scordata, un’umanità naif che vorrebbe provare a educare Zazie e di cui Zazie mette a nudo l’inadeguatezza sostanziale, quel contorno di popolo che Queneau ha saputo reinventare come nessun altro, va a finire nel «Meraviglioso mondo di Amélie» (che vedemmo la prima volta nel 2001 con stupore, salvo irritarci alla seconda, per la quota di piacionismo che cresce a ogni fotogramma). L’Amelie di Jean Pierre Jeunet è la versione bannata di Zazie di Queneau. Ma Amelie smussa le punte del libro e, per rientrare sul cinema, anche le oltranze linguistiche del film che se ne trasse con coraggio, nel 1960. Al di là del bene e del Malle.

«Rue St-Louis-en-l'Ile, Paris 14 juillet», uno scatto del 1952 di Gisèle Freund
Quanto alla Domenica della vita, anche alla lettura 2 3 4 e 5, a me continua a sembrare uno dei libri più divertenti del mondo. Chi volesse regalarsi un pomeriggio felice lo avvicini da due ingressi laterali. Il primo è la copertina, perfetta al limone, per l’edizione Einaudi del 1997: una foto di Gisèle Freund del 1952 con un capannello di gente che balla o si abbraccia il 14 luglio in rue Saint-Louis-en-l’Île. Il secondo è l’intervista lampo, disponibile in rete, alla Darrieux (morta centenaria nel 2017), che, nel film tratto dal libro («Le dimanche de la vie», Jean Herman 1967), interpreta il ruolo di Julia, protagonista cinquantenne che decide di sposare, riuscendoci, Valentin Bru, soldato di prima classe, venticinque anni più giovane. In due minuti l’attrice, che più francese di così si muore, rintuzza, una ad una, le scadenti riserve di volgarità che pesavano, a fine anni Sessanta, su Queneau. Non è volgare, obietta Danielle. Ma popolare. E in due parole c’indirizza al cuore di questo petit peuple charmant, al fondo pieno di poesia.

La copertina dell’edizione Einaudi di «Zazie nel metrò»
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