Esiste una relazione tra gli Nft e l’impetuoso ritorno sulla scena della pittura? A prima vista i due fenomeni appaiono agli antipodi, accomunati esclusivamente da uno straordinario successo commerciale. In realtà, da un’osservazione più attenta potrebbero essere i due lati della stessa medaglia. Entrambi gli ambiti si rivolgono a giovani rampanti del mondo della finanza che hanno fatto fortuna con le criptovalute. Sotto il profilo linguistico, li accomuna un’estetica scarsamente inventiva, basata su stilemi riconoscibili dove prevalgono i tracciati già ampiamente battuti della storia dell’arte. Che siano dipinti o jpg poco importa.
Certo, appare più facile prendersela con i criptogattini o con le scimmie annoiate in un contesto come quello degli Nft dove generalmente si ritrovano riferimenti dozzinali alla Street art, così come ai surrealismi più sdolcinati o ai luoghi comuni della Pop art. Tutto ciò accompagnato da un pizzico di fantasy e da qualche giochino virtuale.
Tuttavia anche la situazione della pittura, coccolata dai poteri forti con le case d’asta che soffiano sul fuoco alimentando una speculazione mai così fiorente, non appare affatto rassicurante.
Dietro la patina perbenista e politically correct, non s’intravede una briciola di autentica novità, né il tentativo di rompere gli schemi. La logica è quella di proporre operazioni di marketing pubblicitario (non a caso gli artisti si omologano rapidamente al volere dei loro mercanti), illudendo gli sprovveduti di trovarsi di fronte alle nuove icone del Terzo Millennio.
In realtà, ciò che più affascina è la girandola vertiginosa dei prezzi, forse l’unico elemento davvero estetico di un’arte ridotta al lumicino: «Il mercato è la vera arte degli anni Novanta», proclamava provocatoriamente il critico e gallerista americano Jeffrey Deitch alla fine del secolo scorso con un’affermazione che oggi appare quanto mai potenziata.
Del resto, di fronte alla trentaduenne inglese Flora Yukhnovich lo stupore non si concentra tanto sui dipinti, quanto sulle quotazioni stratosferiche raggiunte in poco meno di un anno. Basti pensare che il 27 aprile 2021 ha debuttato da Bonhams a Londra con un piccolo dipinto esposto poco prima a Palazzo Monti di Brescia che ha chiuso la gara a 16,5 mila sterline.
Undici mesi dopo, lo scorso 2 marzo, da Sotheby’s a Londra si è assistito a una gara all’ultimo respiro per accaparrarsi «Warm, Wet ‘N’ Wild» (2020), una composizione di 210x179,8 cm che in pochi istanti è passata da una valutazione di 150-200mila sterline a un roboante prezzo finale di 2,7 milioni di sterline, pari a 3,2 milioni di euro che mette in difficoltà persino la sua galleria Victoria Miro che si «accontenta» di vendere i lavori di Flora per 350mila sterline.
La follia collettiva per la nuova starlette non appare affatto giustificata dalle opere che sono ben confezionate, esteticamente gradevoli ma nulla più in un remake divertito del Rococò francese attraverso macchie di colore simili a pixel che vanno a sostituire le figure. Evidentemente, come capita sempre più spesso di questi tempi, non manca la morale e l’artista confessa di voler contestare la presunta frivolezza della pittura femminile.
In base alle registrazioni di Artprice il fatturato degli artisti al di sotto dei quarant’anni ha raggiunto nel 2021 i 450 milioni di dollari, il 150% in più rispetto al 2014 quando era pari a 181 milioni. Su questo fenomeno ha inciso il cosiddetto flipping, ovvero le operazioni finanziarie e speculative organizzate da un gruppo d’investitori-raider che nel più breve tempo possibile monetizzano gli acquisti fatti in galleria o nello studio dell’artista con spettacolari vendite all’asta ottenute sfruttando l’euforia momentanea della domanda.
Tra i tanti «titoli» che hanno acquistato valore nello spazio d’un mattino senza particolari meriti rientra un’altra inglese, la ventinovenne Jadé Fadojutimi, la più giovane artista a fare il suo ingresso nella collezione della Tate Gallery, che sviluppa un remix dell’astrazione ibridando Henri Matisse con Joan Mitchell spalmandolo con una certa dose di giapponismo.
La ricetta a quanto pare funziona e se nel 2020, in occasione delle sue prime apparizioni in asta, i prezzi si aggiravano intorno ai 30mila euro, attualmente si supera il milione. E il primo marzo da Christie’s a Londra una grande tela di quasi due metri, facilmente ascrivibile alla categoria della Bad painting, è balzata sino a 942mila sterline, il doppio delle pur generose stime.
In area Black Lives Matter, tra le più gettonate insieme a quella delle quote rosa e del #metoo, spicca il ghanese Amoako Boafo che collabora con Dior ed è entrato nella collezione del Guggenheim ottenendo il successo attraverso una serie di ritratti di figure di colore realizzate con le mani ispirandosi a Egon Schiele. Praticamente sconosciuto sino al 2018, sembra che per calmierare il mercato abbia dovuto intervenire lui stesso in asta con un gruppo d’investitori evitando eccessivi rialzi.
Ma la girandola della speculazione non si ferma e già iniziano le prime scosse telluriche. Basti pensare che il primo dicembre 2021 Boafo ha raggiunto da Christie’s a Hong Kong l’apice con «Hands Up», un dipinto di grandi dimensioni sul tema dell’omosessualità venduto per oltre 3 milioni di euro. Appena tre mesi dopo, il primo marzo da Christie’s a Londra, «Yellow Blanket», un altro ritratto maschile di grandi dimensioni, ha fatto fermare il martello del banditore a 1,2 milioni di sterline, poco meno di 1,5 milioni di euro. Un gran polverone che non accenna a placarsi con i criptomilionari che scalpitano sapendo bene che è sufficiente posticipare una vendita di qualche mese per mettere a rischio l’intero bottino.
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