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Arianna Antoniutti
Leggi i suoi articoli«Non ho mai voluto scegliere un linguaggio» così dice della propria pratica artistica Alain Fleischer, fotografo, cineasta e scrittore, fondatore e direttore dello Studio national des arts contemporaines Le Fresnoy. «Ho sempre voluto fare tutto insieme. E ogni volta sono una persona diversa, ogni linguaggio è una mia natura differente». Le molteplici nature di Fleischer si intrecciano nella mostra «Souvenirs de Babel», ospitata fino al 22 giugno presso la Kirk Kerkorian Exhibition Hall della Biblioteca Apostolica Vaticana, e curata da don Giacomo Cardinali, Simona De Crescenzo e Delio Vania Proverbio. Lo spazio espositivo all’interno della Biblioteca, fondata a metà del Quattrocento da Niccolò V, e ampliata da Sisto IV, è dedicato, dalla sua inaugurazione nel 2022, al dialogo fra l’arte contemporanea e il patrimonio dell’istituzione vaticana.
Questa volta è affidato a Fleischer, il compito di interagire con la storia della Biblioteca, che possiede 180mila volumi manoscritti e d’archivio, 9mila incunaboli e oltre 200mila fotografie. Fleischer, entrando nel dedalico magazzino degli stampati della Bav, ha pensato all’immagine della Torre di Babele, una babele di lingue, ma anche di spazi. Nel magazzino l’artista ha scelto un fondo ancora non catalogato, composto da 14mila volumi, e ha esposto una parte di essi, componendo una «biblioteca muta», una sorta di edicola sacra, il cui contenuto è ancora da esplorare.
Arte installativa, ma anche fotografia, perché, salendo le scale della Biblioteca, alle pareti figurano alcuni scatti di serie quali «Le masque et son ombre» (1987) o «Les Lions de Rome» (1992). Cuore dell’esposizione è la Sala Barberini, dove è ospitata la struttura lignea della biblioteca che, nel Seicento, Giovanni Battista Soria realizzò a Palazzo Barberini. La biblioteca, con il suo contenuto di stampati, manoscritti e carte d’archivio appartenuto ai principi Barberini, venne acquisita nel 1902 dalla Santa Sede, ricostruita nel 2007 e destinata a sala conferenze.
Fra gli scaffali vuoti, sormontati da un busto di Urbano VIII di Gian Lorenzo Bernini, Fleischer ha ridato vita ai volumi, una volta qui custoditi. Una miriade di voci, ciascuna nella propria lingua (arabo, cinese, etiopico, spagnolo) legge gli antichi testi, mentre il visitatore è immerso, letteralmente, in una babele di suoni. «La libreria è vuota, dice Fleischer, ma la parola è viva. Penso che tutte le opere siano trasferibili da un supporto all’altro, quello che è suono può diventare immagine, quello che è immagine può diventare rilievo». Adoperando della carta argentata, l’artista ha creato un calco del ritratto berniniano di Urbano VIII e lo ha fotografato. «Sono duplici livelli di lettura, doppie impronte. La prima è il calco creato sulla scultura, l’atto di fotografarlo è la seconda impronta». Tutto intorno, una selezione di immagini storiche dall’Archivio fotografico della Biblioteca, racconta le trasformazioni degli spazi, attraverso i secoli, della stessa istituzione.
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