Giuseppe M. Della Fina
Leggi i suoi articoliUna delle avventure maggiori dell’archeologia dell’Ottocento nel Mediterraneo fu la scoperta delle necropoli di Vulci dovuta alle ricerche promosse inizialmente, nel 1828, da Alexandrine de Bleschamp e portate avanti subito dopo dal marito Luciano Bonaparte, Principe di Canino, uno dei fratelli di Napoleone. Si sapeva, inoltre, che esse furono seguite da vicino anche da un personaggio meno noto del «principe-archeologo», vale a dire Padre Maurizio da Brescia (1778-1865).
Un seminario recente (Chroniques Vulciennes/Cronache vulcenti), organizzato congiuntamente dall’École française de Rome e dall’Università di Roma «La Sapienza», ha consentito di tornare su quegli scavi e sul ruolo del frate «archeologo». Alcuni documenti recuperati in questi ultimi anni hanno cambiato infatti il quadro e iniziato a suggerire un ruolo significativo di Padre Maurizio nel quadro dell’archeologia italiana degli anni Venti, Trenta e Quaranta dell’Ottocento.
Va ricordato che la sua figura seppe suscitare l’interesse dello scrittore Stendhal che, nell’articolo «Les Tombeaux de Corneto», scritto nel marzo del 1837, così lo descrive: «uomo venerabile, di un’assoluta amabilità e informato su tutti gli storici del passato, come noi Francesi lo siamo per Voltaire».
I due s’incontrarono di persona e lo scrittore ebbe modo di donargli una copia con dedica della sua Histoire de la Peinture en Italie (Parigi 1831). Si può ricordare, inoltre, l’ipotesi, avanzata da Bruno Pincherle, che Padre Maurizio abbia ispirato Stendhal nel tratteggiare la figura dell’abate Blanès presente in uno dei suoi romanzi più noti: La Chartreuse de Parme.
Sul frate «archeologo» abbiamo anche la testimonianza di un importante antichista del tempo Eduard Gerhard che associa (e quasi mette sullo stesso piano) Luciano Bonaparte e Padre Maurizio nella conduzione degli scavi vulcenti in un contributo pubblicato nel «Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica» (1829). Sui rapporti tra Padre Maurizio e il Principe di Canino, alcuni dati erano noti: il loro incontro avvenuto a Roma nel 1806, l’ingresso nell’entourage di Luciano come precettore dei figli e la successiva amicizia sorta tra i due.
La nuova documentazione, valorizzata da Maria Virginia Guarneri e Roberto Lanzi, è testimoniata da alcune lettere, una serie di appunti e dal manoscritto di una relazione sugli scavi di Canino inviata da Padre Maurizio all’Accademia degli Ardenti di Viterbo, dove venne letta nella seduta del 27 giugno 1833. Quest’ultima, conservata in due versioni, una sorta di brutta e di bella copia, presso l’Archivio Provinciale dell’Ordine dei Frati Minori di Lombardia, rappresenta, da un lato, il resoconto di Padre Maurizio sulle scoperte effettuate a Canino e, dall’altro, la sua posizione nella querelle sull’etruscità o meno dei vasi figurati scoperti in Etruria, di cui al tempo si dibatteva in maniera animata.
La relazione si apre con un’analisi dell’impatto avuto dagli scavi effettuati, poi l’attenzione si sposta sull’analisi dei «vasi dipinti» rinvenuti e appunto sul loro luogo di fabbricazione: la Grecia, o la penisola italiana. Padre Maurizio si schiera in maniera convinta a favore della seconda ipotesi, ma introduce una valutazione nuova. Riconosce che le iscrizioni presenti sui vasi erano in lingua greca, ma arriva a ipotizzare un tempo nel quale il greco sarebbe stata una lingua largamente diffusa nella penisola italiana. Tale età sarebbe coincidente con il tempo mitico dei Pelasgi.
Una conferma di tale ipotesi scaturisce per lui anche dall’analisi stilistica: «lo stile delle pitture dei vasi di Canino, le figure degli Dei, gli attributi, i costumi e perfino gli ornamenti tutti annunziano l’epoca pelasga, ed escludono l’ellenica». Arriva così a ipotizzare una fase pelasgo-etrusca. Il dato del luogo del ritrovamento per Padre Maurizio appare come l’indicatore principale per localizzare una produzione. Noi oggi sappiamo che la rete dei commerci nel Mediterraneo antico era assai sviluppata, ma, al tempo, molti ritenevano impossibile ipotizzare uno scambio di prodotti così ampio e quindi il luogo di ritrovamento sembrava dover coincidere all’incirca con quello di fabbricazione.
L’idea di una fase «pelasgo-etrusca» è presente nel Catalogo di scelte antichità etrusche trovate negli scavi del Principe di Canino. 1828-1829 e ritorna in altre interventi di Luciano Bonaparte a confermare lo scambio di opinioni tra i due e una visione comune. Non sembra forzato avanzare l’ipotesi che l’intuizione della fase «pelasgo-etrusca» sia da attribuire proprio a Padre Maurizio che aveva una buona preparazione classica; si ricordi, in proposito, l’affermazione di Stendhal.
Tale ardito castello di ipotesi venne giù definitivamente nei decenni seguenti a seguito di nuove scoperte sensazionali e, soprattutto, dell’evoluzione metodologica della disciplina archeologica. Per noi oggi può essere interessante provare a comprendere i motivi per i quali venne eretto.
Nel caso di Padre Maurizio interessi diretti nel commercio di antichità, presenti invece nei coniugi Bonaparte, vanno esclusi. L’insistenza nel volervi riconoscere «monumenti nazionali della nostra antica Italia» mi sembra che rientri in un pensiero politico diffuso in diversi ambienti intellettuali italiani dei decenni finali del Settecento e dell’Ottocento (sino ad unificazione avvenuta), che guiderà il comportamento di Padre Maurizio durante la stagione risorgimentale, che vide con favore.
Fu lui, dopo l’insurrezione di Brescia contro l’Austria (23 marzo / 1 aprile 1849), l’incaricato a trattare: «Eccoci dunque su per la china del Castello, tra due file di case abbruciate e brucianti. I travi dei soffitti cadevano al nostro fianco come tizzoni fumanti … ho potuto contemplare la mia povera Patria, in fiamme come Troia», scriveva in una lettera indirizzata proprio ad Alexandrine de Bleschamp.
Incarichi diplomatici non insoliti per lui: nel 1815, durante i Cento Giorni, aveva avuto occasione d’incontrare Napoleone Bonaparte su incarico del fratello Luciano e, decenni dopo, nel 1856, sempre a Parigi, su indicazione del pontefice Pio IX, si confrontò con Napoleone III, che aveva conosciuto quando era un ragazzo.
Il pensiero politico, a cui si ricollegava, intendeva esaltare la penisola italiana e l’Etruria, in particolare, quale culla della civilizzazione mediterranea ed europea: l’Italia non era un’espressione geografica, secondo la celebre espressione del Metternich, ma una nazione con una storia luminosa alle spalle. Non si vuole affermare che Padre Maurizio e Luciano Bonaparte fossero schierati su posizioni filoitaliche, in corso di superamento nel dibattito scientifico tra gli antichisti, solo strumentalmente, ma che ne comprendevano a pieno il valore ideale e vi riconoscevano le basi ideologiche per un riscatto più o meno prossimo dell’Italia.
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