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«IKON, Birmingham», di Roger Hiorns, 2017. Courtesy l'artista e Corvi-Mora, Londra

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«IKON, Birmingham», di Roger Hiorns, 2017. Courtesy l'artista e Corvi-Mora, Londra

La fiera funziona se guarda al mercato

Con 186 gallerie da 19 Paesi, la 24ma Miart punta sul Moderno ed educa al Contemporaneo

Michela Moro

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Bello essere tradizione e non più novità, come sta succedendo a Miart, Fiera Internazionale di Arte Moderna e Contemporanea, che negli ultimi anni si è stabilizzata in una soluzione di continuità tra il direttore in carica da tre anni Alessandro Rabottini e il precedente Vincenzo De Bellis. Il segnale arrivato da parte dell’istituzione Fiera Milano ha permesso di navigare fino a oggi senza troppe scosse e dovrebbe servire d’esempio in molti campi.

A questo si è unita la capacità di Rabottini di alta concentrazione e di chiara visione sul progetto, certamente agevolato dall’essere stato dal 2013 attivo a Miart come coordinatore-curatore di alcune sezioni. La combinazione ha convinto molte gallerie italiane e straniere a dare fiducia a Miart, tornando a ripetizione. Lo stesso dicasi per i collezionisti: benché amino le novità, sono abitudinari, adorano percorrere gli stessi tragitti, e una fiera che si conosce bene tranquillizza, rassicura e lascia spazio mentale per focalizzarsi sulle opere.

Ogni edizione Rabottini aggiunge, lima, smussa, lucida, ma mantiene l’impianto. La sezione Emergent è una costellazione di ventuno gallerie di nove Paesi europei, con un’estensione in Turchia. La scelta è stata operata secondo un criterio di ricerca artistica, di serietà di programma e perché nei Paesi da cui le gallerie provengono rappresentano un nodo di discorsi tra comunità locali, sia pure con modalità diverse.

Può essere il tentativo di «educare al contemporaneo» una città profondamente immersa nell’arte del passato: «In generale guardo chi prende dei rischi in luoghi dove non c’è affinità al contemporaneo con interessanti artisti, spiega la curatrice Attilia Fattori Franchini. Ho invitato le gallerie a concentrarsi su una proposta ridotta, negli stand ci sono in genere un paio di artisti e un dialogo tra pratiche diverse. Il risultato è una rappresentazione plastica degli aspetti emotivi, in certi casi onirici, delle realtà che ci circondano, con un ritorno al figurativo, alla fotografia e alla scultura».

In tempi difficili come i nostri puntare sui giovani è un rischio? «No, cerco sempre di intuire la stabilità, non solo della galleria ma dell’artista. Credo nei giovani perché sono interessata agli scambi e ai discorsi densi di energia che si creano nei momenti di crescita. Anche i luoghi mutano. Abbiamo sette nuove gallerie internazionali: tre provengono da Vienna, uno dei nuovi poli dell’arte per i giovani che sta soppiantando Berlino e tre italiane, da Roma Ada e Gilda Lavia, e da Piacenza Una».

Ospitata a fieramilanocity, dal 5 al 7 aprile, la 24ma Miart s’intitola «Abbi cara ogni cosa». Partecipano 186 gallerie di 19 Paesi; 72 sono estere e 45 partecipano per la prima volta, tra queste Hauser & Wirth, Marian Goodman Gallery, Thaddaeus Ropac e Tucci Russo. Sette le sezioni: Established, con 129 espositori divisi tra Contemporary (79 gallerie di arte contemporanea) e Master (50 gallerie con opere del ’900); Emergent, (21 gallerie) dedicata alle giovani generazioni; Generations, 8 dialoghi tra artisti di diverse generazioni; Decades, 9 gallerie creano un percorso lungo i decenni del XX secolo; On Demand, sezione trasversale dedicata a opere che vivono della relazione con il contesto, con il pubblico e con l’acquirente; Object, con 12 gallerie di design contemporaneo. Da ricordare, infine, i sei tra premi e fondi di acquisizione, per un totale di oltre 130mila euro e il ciclo di conversazioni e tavole rotonde miartalks.

«IKON, Birmingham», di Roger Hiorns, 2017. Courtesy l'artista e Corvi-Mora, Londra

Michela Moro, 04 aprile 2019 | © Riproduzione riservata

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