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Redazione GdA
Leggi i suoi articoliIl 6 maggio è morto all'età di 91 anni lo storico dell'architettura John Frederick Harris. Specialista di architettura palladiana, Harris ha curato varie mostre epocali, compresa, con Sir Roy Strong e Marcus Binney, «Destruction of the Country House» tenutasi al Victoria and Albert Museum di Londra nel 1974 e che ha dato impulso al movimento per la conservazione delle country houses inglesi e alla fondazione, nel 1975, di Save Britain's Heritage. John Harris è stato tra i fondatori e presidente onorario a vita della International Confederation of Architectural Museums (Icam).
Pubblichiamo uno stralcio dello scritto di Harris contenuto nel libro La stanza del gentiluomo inglese, edito da Umberto Allemandi & C. nel 1987.
Le nostre stanze dormono dentro di noi. La maggior parte di esse non si desta mai alla vita, oppure si lascia a un arredatore l'incarico di dar loro la sveglia, di sostituirsi al ventre materno che mette assieme i pezzi e i frammenti dei detriti della vita. Noi che ci rendiamo conto che esiste una consapevolezza della casa, siamo costretti a disseppellire dal passato i primi fremiti della nostra presa di coscienza dei muri che ci avvolgono. Per me si trattò di una camera da letto che dava su una distesa di vecchi mattoni e frutteti, e riesco a rammentare una finestra con un davanzale bianco, di legno, sul quale avevo fatto la mia prima composizione: al centro un grande rilievo ovale di cera di Lucas, ispirato a una moneta greca antica, fiancheggiato da due figure femminili di bronzo. Il Lucas era bello e raro, i bronzi indubbiamente edoardiani e scadenti. Non riesco a ricordare altro, tranne che, quando nel 1951 ritornai dal servizio militare in Malesia, il calore del sole aveva mezzo fusa la cera, che era andata così irrimediabilmente perduta. Ora i bronzi abbelliranno indubbiamente un'altra stanza.
Poi ho in mente Parigi nel 1952 e il mio misero tenore di vita nei vieux hotels du Marais o in vecchie case di altri arrondissement. Ero un giovanotto sfrontato che bussava impassibilmente alla porta e penetrava nell'intimità privata di quella che i francesi chiamano «disposition». Qui avvenne uno di quegli incontri che, visti a posteriori, si rivelano decisivi per la formazione del vrai goût. Avevo scritto, senza avere nessuna presentazione, a Francis Watson, allora direttore incaricato della Wallace Collection, che mi aveva gentilmente risposto in questi termini: «Vada a trovare Richard Penard facendo il mio nome e guardi la sua collezione». Naturalmente lo feci, e spesso mi domando se esista ancora a Parigi qualcosa di altrettanto squisito che quella collezione ora dispersa fra il Louvre e alcuni musei americani. Richard ne aveva fatto una perfetta dimostrazione della bellezza e del fascino dello stile di transizione. Era una raccolta messa assieme senza errori, nient'affatto sterile come tante collezioni di mobili francesi raccolte da ricchi americani che hanno più denaro che gusto. Diversamente da loro, Richard, nella sua collezione, aveva messo l'anima. Egli instillò in me, senza rendersene conto, il segreto di quel rapporto spirituale che deve esistere fra il collezionista e la sua collezione. Egli era in sintoma spirituale con le cose che amava, e riteneva che l'accostamento di un oggetto con l'altro non fosse soltanto una questione di spazio, ma anche di colore, di ombra e di grana, quella qualità essenziale, insomma che è l'armonia. [...]
Il mio pellegrinaggio era iniziato, avevo imboccato il cammino segnato dai santuari, poiché la scoperta dell'estensione dell'io negli oggetti collezionati non è diversa da un esercizio religioso culminante nella rivelazione. [...] Dopo Parigi il mio pellegrinaggio mi portò al 20 di Thurloe Square da Geoffrey Houghton Brown. Com'è possibile delineare un personaggio come Geoffrey in poche righe? È pittore, arredatore, antiquario, peripatetico acquirente di case di campagna e cattolico praticante. Egli vagava instancabilmente di negozio in negozio acquistando tesori, trasmettendo alla sua caccia il valore della premiazione, la necessità di agire in base alla sensazione istintiva piuttosto che esitare con la prudenza dello storico dell'arte. Il suo era l'occhio del pittore che lavorava su una stanza come su una tela, e certamente non v'era nessuno che sapesse, con apparente noncuranza come lui, accostare degli oggetti con la sua stessa sensibilità. [...] Oggi tutta una generazione di mercanti d'arte divenuti banchieri sarebbe scandalizzata da qualcuno degli effetti da lui ricercati, come i ritratti a tutta figura in stile Hudson acquistati alla vendita di Claydon House negli anni Cinquanta e tagliati per fare delle porte trompe l'œil nella vicina Winslow Hall, una casa di Wren che Geoffrey aveva salvato dal piccone dei demolitori. Ciò che importava era l'effetto. [...]
Tutto era diverso nel successivo santuario da me toccato, Hungershall Lodge a Tunbridge Wells, da tempo scomparso, e l’altare profanato da altri proprietari. Intendo riferirmi a Rupert Gunnis e alla sua straordinaria collezione. Qui si trattò di un’esperienza certamente di genere più erudito e storico-artistico, in una casa con decine di bacheche piene di tesori e decine di librerie. Era un esempio dell’horror vacui del collezionista. [...] Hungershall Lodge era un’amalgama suggestiva di dipinti, disegni, incisioni, marmi, terracotte, bronzi, ceramiche, cere, smalti, silhouette e ricami. Ogni centimetro di parete era sovraccarico, ogni tavolo ricoperto di oggetti. Di quella ricca e rara biblioteca non conservo soltanto ricordi di carattere museale, ma anche di comode poltrone, di fiori fragranti e di orchidee, e di una conversazione piena di malizia. Gunnis aveva un senso innato dello stile, e suppongo che agisse in qualità di eminenza grigia dietro l'organizzazione delle country houses nei primi tempi della loro apertura al pubblico. Il punto essenziale di Hungershall Lodge era che, senza la presenza di Rupert, non avrebbe avuto nessun significato. Ricordo che Christopher Hussey osservava, subito dopo la morte di Rupert, che sarebbe stato impossibile rendere l'atmosfera di quella casa per un lettore di «Country Life» ora che le erano venute meno le attenzioni del suo proprietario. Com'è vero, e quanto è giusto che le collezioni di Penard e di Gunnis siano andate disperse, poiché è fuor di dubbio che l'anima lascia la collezione quando la vita abbandona il corpo del collezionista.
[...] Così come il nostro pellegrinaggio termina per ognuno di noi nel proprio Santiago de Compostela, per me si conclude nella mia stanza nel Gloucestershire. Essa parla da sola, e io non so spiegare la grammatica della mia costruzione più di quanto non possa il mio amico Christopher Gibbs spiegare la sua abilità nel dare la patina dell’eterno alle sue stanze. Indubbiamente anche Christopher ha i suoi santuari, ma sono pochi coloro che compiono questo pellegrinaggio; gli altri sono soltanto dei simulatori: è molto meglio che assumano un arredatore.
Una parte del «Santiago de Compostela» di John Harris, dove le luci tenui creano un'atmosfera molto particolare. Foto di Derry Moore
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