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Alessandro Martini
Leggi i suoi articoliFa un poco impressione, e suscita molte riflessioni e qualche ripensamento, leggere le parole di Nicholas Serota secondo cui «l’esperienza unica di vedere oggetti e opere d’arte da molto vicino rimarrà la pietra di paragone per i musei». Ma l’ex direttore della Tate non si limita a imporci di pensare e continuamente ripensare il significato e le funzioni effettivi del museo oggi, quanto cioè il museo possa esistere in una dimensione virtuale e forzatamente impedito o limitato in quella fisica; ma ci presenta anche, con certezza pressoché assoluta, che cosa il museo sia destinato a diventare: «da palazzo a foro», quindi uno spazio reale totalmente democratico, accessibile e permeabile.
«Un luogo di esperienze condivise», ci spiega Serota, perché «nel ventunesimo secolo i musei migliori saranno quelli che creeranno spazi per la conversazione, il dibattito e lo scambio di idee, non meno che per l’istruzione» e sempre più «diventeranno luoghi di incontro oltre che di contemplazione». Concludendo che «l’aspetto istruttivo non sarà confinato all’aula o all’auditorium, ma avrà luogo in tutto l’edificio». Tutto questo Serota non lo sostiene all’interno di un saggio di Museologia, ma nel testo di presentazione di un libro curioso e per molti versi imperdibile per chi si interessa dei musei: Pezzi da museo. Ventidue collezioni straordinarie nel racconto di grandi scrittori (a cura di Maggie Fergusson, traduzione di Pavlov Dogg, 336 pp., ill. b/n, Sellerio, Palermo 2019, € 16,00).
Raccoglie altrettanti testi selezionati tra i 38 in gran parte commissionati dalla Fergusson e già pubblicati nella rubrica «Authors on museums» della rivista «Intelligent Life», sorella culturale dell’«Economist» britannico. Non sono saggi (anche se alcuni sono assai dotti) ma piuttosto racconti di un rapporto intimo e personale tra autore, luogo e opere, tra memoria, analisi e scoperta. Testimoniano approcci diversi e tra loro lontani, sono il frutto di passioni e idiosincrasie più o meno coscienti e dichiarate.
Non hanno alcuna ambizione di esaustività ma hanno il grande merito della scoperta inattesa. E, ovviamente, della qualità narrativa e letteraria attraverso cui è comunicata l’analisi storica, culturale e artistica. Come quando Julian Barnes (particolarmente brillante anche negli scritti d’arte, come dimostra il recente volume Con un occhio aperto, per Einaudi) racconta Ainola, la casa museo del compositore finlandese Jean Sibelius, «un luogo dalla duplice, contraddittoria reputazione: creazione e distruzione, musica e silenzio»; una casa museo in cui, contrariamente a molte altre in cui «lo spirito autentico è soffocato dalla museificazione, dall’intervento dei curatori e dal sovrapporsi di un bel centro studi», conserva il suo «genius loci: è la casa di, per, costruita da Sibelius».
O, ancora, il britannico Alan Hollinghurst scopre l’assoluta originalità del Thorvaldsen Museum di Copenaghen (inaugurato nel 1848, con l’artista ancora in vita) e il suo «lungo cortile centrale, con degli affreschi di altissime palme: qui fu sepolto il grande scultore danese Bertel Thorvaldsen come in un nordico sogno del Sud».
Con una certa predilezione per le case museo, Ali Smith ci racconta Villa San Michele a Capri (il regno di Axel Munthe), John Burnside
la casa di James Ensor a Ostenda, Claire Messud
il Museum of Fine Arts di Boston, Aminatta Forna sul Museo delle Relazioni Interrotte di Zagabria e Matthew Sweet il Museo degli Abba a Stoccolma. Non mancano le soprese e le scoperte inattese.
Pezzi da museo. Ventidue collezioni straordinarie nel racconto di grandi scrittori, a cura di Maggie Fergusson, traduzione di Pavlov Dogg, 336 pp., ill. b/n, Sellerio, Palermo 2019, € 16,00
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