Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Alessandro Martini
Leggi i suoi articoli«La Cena dell’Arte, organizzata con Gallerie d’Italia, è forse uno degli esempi più pregnanti di che cosa voglia essere Buonissima, cioè un festival di cibo, arte e bellezza. Nelle Gallerie d’Italia di piazza San Carlo a Torino e nel ristorante Scatto, in occasione della mostra del fotografo Jeff Wall, a cucinare sarà Josean Alija, due stelle Michelin, uno chef la cui grande sensibilità è maturata con il tempo negli spazi del ristorante Nerua, all’interno del Guggenheim di Bilbao, forse anche per osmosi». Così il giornalista enogastronomico Stefano Cavallito racconta l’appuntamento che si terrà venerdì 24 ottobre a Torino nell’ambito della quinta edizione di Buonissima (22-26 ottobre), evento da lui ideato insieme al collega Luca Iaccarino e allo chef Matteo Baronetto. Fin dalla sua nascita Buonissima, evento «trasversale» e aperto a tutti, persegue l’obiettivo di unire la migliore gastronomia (dalla popolare a quella «stellata») con l’arte e lo spettacolo: sono nate così cene spettacolo come quella del 2021 alla Mole Antonelliana con la regia di Arturo Brachetti, o quella nella Reggia di Venaria con Samuel dei Subsonica alla consolle e Alain Ducasse e Davide Oldani ai fornelli. Tra gli eventi di questa edizione, l’Opening Dinner del 22 ottobre, che vedrà gli chef confrontarsi con la mostra «Vedova Tintoretto. In dialogo» in corso a Palazzo Madama e la presenza di Rasmus Munk, chef dell’Alchemist di Copenaghen: uno dei suoi celebri piatti è dedicato al suo quasi omonimo Edvard Munch.
Josean Alija, che cosa può anticiparci di ciò che troveranno gli ospiti della Cena dell’Arte 2025, di cui sarà protagonista con Christian Costardi, resident chef di Scatto?
Proporrò un menu che definisce lo stile e le linee della mia cucina: naturalista e minimalista. Una cucina essenziale che esalta l’anima del territorio attraverso i prodotti locali e stagionali. Mi piace mostrare la purezza, la cultura e il sentimento che abbiamo a Bilbao per la gastronomia: un modo di vivere e di intendere la vita, dove tutto ciò che è importante ruota attorno alla cucina.
Come si è relazionato o si relazionerà all’opera di Jeff Wall per ideare il menù per quest’occasione?
Non lo conosco personalmente, ma ammiro il suo lavoro e la sua filosofia: la concettualizzazione, il fatto che l’idea sia più importante dell’opera, e il modo con cui nelle sue opere esalta gli aspetti più emotivi. Questo fa parte anche del nostro processo creativo: mettere in risalto gli aspetti più nobili del prodotto a partire da un’idea, fare qualcosa che abbia più a che vedere con il gusto e il sapore che con l’estetica. Mi sono lasciato trasportare dalla delicatezza, dalle consistenze e dalle forme. La cucina entra dagli occhi, si gusta con la bocca (per il sapore, l’odore, le consistenze) e viaggia con la memoria: è un paesaggio.
Che cosa la ispira maggiormente, confrontandosi con l’arte e con gli artisti? Forme, colori, materia, temi delle opere, biografia dell’artista o altro?
Ciò che mi ispira degli artisti è ciò che li rende unici; mi apre la mente e mi invita a sognare. È fondamentale che ci sia una connessione e che la concettualizzazione o l’idea siano più importanti dell’opera: questo è il vero nutrimento creativo. L’obiettivo è quello di creare una narrazione che seduca, emozioni e trovi fili conduttori tra esperienze diverse. Ogni dettaglio (un gesto, un sapore, un concetto...) funziona come un segnale che risveglia la memoria, la riflessione e l’immaginazione. Sedurre implica attrarre con delicatezza, emozionare, toccare l’intimo e cercare connessioni, invitare a scoprire significati nascosti. Così, ogni opera, ogni piatto, ogni esperienza diventa un tessuto in cui la narrazione e la sensazione si intrecciano, trasformando l’effimero in qualcosa di memorabile. Nella creatività tutto dipende da come si guardano le cose: sono punti di luce da cui nasce un’idea. Per creare, è importante avere una buona conoscenza che alimenti quell’idea e disporre della tecnica che ne consenta lo sviluppo, per poterla sistematizzare.
Con quali artisti, architetti o altri grandi creativi nelle arti visive ha collaborato nel corso degli anni?
Mi trovo in uno spazio profondamente creativo, dall’edificio stesso (che ha cambiato il modo di intendere l’architettura ed è diventato una cattedrale del XXI secolo) a molti di coloro che espongono qui: Anish Kapoor, Jeff Koons, Norman Foster, Richard Serra e tanti altri.

Una veduta dell’insegna del ristorante Nerua al Guggenheim Bilbao
Che cos’ha significato per lei aprire il ristorante Nerua nel Guggenheim Bilbao? Quali ispirazioni le ha dato lavorare all’interno dell’architettura di Frank Gehry, progettista sia del museo che del ristorante, e accanto a tanti capolavori dell’arte contemporanea?
Nerua è uno spazio che riflette il mio modo di intendere la cucina e ciò che la circonda. È un luogo dalle forme e dall’architettura singolari: uno spazio puro e pulito che concentra l’attenzione su una tela bianca, il tavolo, e sul commensale. L’ingresso avviene attraverso la cucina stessa, dove si distilla l’essenza di ciò che siamo: un concetto umano, familiare e molto antico. Così era la vita nei casolari dei Paesi Baschi: tutto veniva fatto e celebrato in cucina. Lì si ha l’opportunità di vedere come lavora un team, meticolosamente come un’orchestra. Lo spazio è completato dall’arredamento di Frank Gehry (sedie e tavoli), dal grande tavolo della cucina e dalle posate su disegno di George Jensen, che contribuiscono all’armonia e all’esperienza sensoriale del commensale.
Quali nuovi piatti e nuovi progetti ha realizzato nel Guggenheim Bilbao in tutti questi anni?
Sono 27 anni, un tempo sufficiente per scrivere diversi libri. Oltre a creare decine di ricette, siamo una grande famiglia che lavora con entusiasmo per valorizzare la gastronomia e rendere un po’ più felici i nostri clienti. Forse la cosa più importante è stata quella di essere stati i primi a creare uno stile di cucina, naturalista e minimalista, che è servito da ispirazione ad altri professionisti.
A suo parere, e sulla base della sua esperienza, quali sono i punti di contatto tra arte, e arte contemporanea in particolare, e alta cucina? E quali le grandi differenze?
C’è il dubbio se la cucina sia un’arte o meno... Ma non spetta a me decidere. In tutte le discipline creative c’è qualcosa in comune e molto personale: il progetto creativo e la capacità di creare un linguaggio nuovo o un prodotto originale. La grande differenza tra la cucina e l’arte è che la cucina si mangia e può essere replicata, mantenendo gli standard di qualità.
Come descriverebbe e racconterebbe oggi il suo rapporto personale, privato, con il mondo dell’arte e della creatività?
Per me, la fonte di ispirazione principale è nella natura, negli artigiani e in quelle persone che lavorano con la materia e il prodotto, nel conoscerli e poter sentire ciò che li muove. Conoscere il prodotto alla sua origine e lavorarlo per scoprirne il valore, così come gli aspetti che mi emozionano, sono le chiavi per creare. Rispetto all’arte, e all’arte contemporanea in particolare, sono un semplice consumatore: l’arte mi nutre, mi insegna, mi diverte e mi rende felice. Non cerco necessariamente di capirla tutta né di padroneggiarne la tecnica, ma mi lascio attraversare dalle idee, dalle emozioni e dalle sensazioni che suscita. In questo senso, trovo una particolare affinità con l’arte concettuale, un movimento in cui la primazia ricade sull’idea piuttosto che sull’oggetto realizzato. Nell’arte concettuale, la materia perde rilevanza: ciò che è veramente artistico è il concetto, l’intenzione, il pensiero che si dispiega dietro ogni opera, indipendentemente dai mezzi utilizzati per esprimerlo. La tecnica, il supporto o la forma passano in secondo piano, e ciò che rimane è la forza della riflessione che provoca. Questo approccio ha segnato profondamente l’evoluzione dell’arte contemporanea e l’influenza delle idee sulla forma ha ridefinito la creazione artistica in modo tale che, anche a distanza di decenni, il pensiero che sta dietro all’opera continua a determinarne il valore e il significato. L’arte smette così di essere semplicemente un oggetto da contemplare e diventa uno spazio di dialogo intellettuale, emotivo e culturale. Analogamente, anche nella gastronomia si nota un interessante parallelismo: ogni piatto può essere un esercizio di concettualizzazione e sperimentazione sensoriale. Pomodori in salsa con erbe aromatiche e fondo di capperi, spinaci stufati con cocco e caviale, tortilla di capesante, kokotxa di merluzzo con vongole e salsa verde, salmone e txangurro con marinara, torta al cioccolato con lamponi e birra ghiacciata... Ogni proposta non solo soddisfa il gusto, ma stimola la mente e lo spirito, generando un’esperienza che trascende il semplice nutrimento e assomiglia, nel modo in cui provoca sensazioni, alla ricezione dell’arte concettuale: ciò che conta è l’idea, l’intenzione, l’emozione che ogni combinazione suscita.

Una veduta dell’interno del ristorante Nerua al Guggenheim Bilbao
Altri articoli dell'autore
Un libro di Arturo Marzano, in uscita il 21 ottobre per Il Mulino, sceglie di raccontare una vicenda che non è solo politica e militare, ma anche culturale, sociale ed economica
Parigi e la nascita dell’Impressionismo, Roma e gli artisti di piazza del Popolo, e poi la Patagonia, Minorca, Tahiti…
In vent’anni la Fondazione Merz ha accolto 106 mostre e 271 artisti di 54 Paesi. Nel 2026 una grande personale su Marisa Merz
Un viaggio nel complesso rapporto tra il tennis e l’arte contemporanea