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Guglielmo Gigliotti
Leggi i suoi articoliCon una mostra di trenta opere, tra sculture e dipinti, realizzate da Agenore Fabbri tra il 1957 e il 1965, Open Art presenta una stagione cruciale dell’artista che amava tormentare la materia.
Bronzi di figure umane dagli occhi sgomenti e la carne ferita da solchi, accanto a cani, gatti, galli, cinghiali, sovente in lotta, rappresentano in mostra, come nell’intero percorso scultoreo di Fabbri, le linee guida di un linguaggio volto a dar corpo all’essenza dolente delle cose.
Pistoiese di nascita, Fabbri (1911-98) si era formato nella Firenze dei primi anni Trenta, a contatto con i frequentatori del caffè Le Giubbe Rosse: gli amici Montale, Luzi e Rosai, soprattutto.
Ma sarà Albisola, presso Savona, centrale della ceramica internazionale, a fornirgli mezzi e spunti per una rivoluzione linguistica all’insegna dell’espressionismo materico. Iniziò a frequentare la cittadina ligure dalla metà degli anni Trenta, tornandovi per lunghi soggiorni estivi fino agli anni Ottanta.
Nacquero qui il suo sodalizio con Lucio Fontana e le relazioni con altri artisti che operarono in varie riprese e in vari modi, nelle manifatture di ceramica di Albisola, tra cui quella fondata dal futurista Tullio d’Albisola. Fabbri ebbe infatti contatti con Picasso, Matta, Appel, Jorn, Marino Marini, Capogrossi, Manzù, Scanavino.
La mostra di Prato, curata da Mauro Stefanini, raccoglie anche un gruppo di dipinti di impronta informale che, tra lacerazioni e coaguli materici, intendono illustrare, come nella scultura, il trauma mai superato della guerra e un senso drammatico della vita.
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