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Giovanni Pellinghelli del Monticello
Leggi i suoi articoliTormentata è la vicenda dello Studiolo di Federico da Montefeltro del Palazzo Ducale di Urbino, anzi dei due Studioli montefeltreschi: quello di Federico a Urbino e quello cosiddetto di Guidubaldo a Gubbio. E non perché l’unione fra bellezza fuori del comune e composizione ideale e ideologica della loro «architettura» non sia stata percepita o apprezzata ma, al contrario, per troppo alta stima, e cupidigia di sovrani e collezionisti. Federigo di Montefeltro, secondo duca di Urbino (1422-82) affidò nel 1454 la ristrutturazione dell’antico complesso ducale a Maso di Bartolomeo (1406-56), fiorentino allievo di Donatello, Michelozzo e Lorenzo Ghiberti, volendo che si incorporasse l’esistente Palazzetto della Jole, tuttora riconoscibile all’esterno del Palazzo Ducale. L’incarico di renderlo anche fortezza passò nel 1464 a Luciano Laurana, l’architetto di origine dalmata già attivo per gli Aragona a Napoli e per la Serenissima a Venezia, che vi realizzò i suoi capolavori: l’inconfondibile facciata coi Torricini e, di olimpica umanistica armonia architettonica, il Cortile d’Onore nonché, oltre allo stesso Studiolo e le Cappelle, lo Scalone d'onore, la Biblioteca, la Sala degli Angeli, la Sala delle Udienze, le Soprallogge. Scomparso Laurana nel 1479, a completare il progetto si avvicendarono vari architetti, fra cui forse anche Bramante, del resto urbinate e attivo anche nel decoro interno.
Il Palazzo Ducale, celebre anche perché Baldassar Castiglione vi ambienta, nella Sala delle Veglie, Il Cortegiano (1507), si caratterizza per la concezione di «Palazzo ideale» voluta da Federico, così come l’urbanistica di Urbino doveva farne la «Città ideale», in quella realizzazione architettonica che a tutto tondo rispecchiasse la devozione del duca agli studi classici e umanistici, perfino nella routine quotidiana negli Appartamenti privati, fra Sala delle udienze, Camera da letto, l’avveniristica Sala da bagno, la Biblioteca, le devozioni nella Cappella del perdono e, nello Studiolo, gli amati studi di letterature greca e latina in una iconologia tanto erudita quanto esplicitamente paganeggiante e in ciò assolutamente atipica per un palazzo, se non ancora medievale, del Rinascimento in esordio. Perno di questa concezione culturale e architettonica fu appunto lo Studiolo, l’ambiente più intimo del palazzo e ritratto interiore di Federico e delle sue scelte intellettuali ed estetiche.
La scelta (bizzarra nonostante la vista sul panorama urbano ed agreste di Urbino) di una stanza minuscola con altezza inusuale e perimetro irregolare (3,60x3,35 metri), rientra nella visione iconologica dello stesso Palazzo Ducale, con le tre Logge esterne fra i due Torricini in successione verticale legate all’interno dal fine simbolico: la più bassa, priva di ornamenti ed esterna alla Sala da bagno, a simbolo della cura del corpo; la centrale più adorna esterna allo Studiolo rappresenta la cura della mente, l’ultima e più decorata si collega alla Cappella e indica la cura dello spirito.
Realizzato fra 1473 e 1476 (come conferma l’iscrizione che corre sotto il soffitto a lacunari, opera di Giuliano, 1432-90, e Benedetto da Majano, 1442-1497), a riequilibrarne la percezione spaziale l’ideatore, forse Bramante, coniugò la decorazione fra divisione in due zone: tarsie lignee a trompe-l’œil in basso e galleria di ritratti in alto. Subito sotto i cassettoni del soffitto, con gli emblemi e le imprese di Federico in smaglianti colori araldici (bianco, azzurro e oro), erano disposti su due registri 28 ritratti su tavola, ciascuno di 115x70 centimetri circa, (oggi solo 14) di Uomini illustri del passato e del presente, personaggi storici e contemporanei di Federico accoppiati in un tacito dialogo di gesti e rimandi fra discipline umanistiche. Nel registro superiore scrittori classici e umanisti e nel registro inferiore figure religiose ed ecclesiastiche. Sono tutti di mano del fiammingo (ma influenzatissimo da Melozzo) Giusto di Gand (Joos van Wassenhove, 1430?-80?) e poi del castigliano Pedro Berruguete (1450-1504, la cui opera emblematica resta «Federico di Montefeltro con ill figlio Guidubaldo» del 1475 circa, ancor oggi nel Palazzo Ducale) nell’umanistica ambivalenza di sacro e profano, cristiano e pagano ricorrente in tutta la decorazione dello Studiolo e nei sottostanti Tempietto di Apollo e le muse e Cappella del perdono.

Una veduta dello Studiolo di Federico da Montefeltro. © Galleria Nazionale delle Marche. Foto Claudio Ripalti
Naturale pendant dello Studiolo era la Biblioteca, che conservava manoscritti miniati saccheggiati dai Barberini (oggi conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana), affrescata con le Arti Liberali, qui figure femminili in trono nell'atto di investire Federico e vari personaggi della corte come ideali cavalieri. La correlazione iconologica e filologica fra Studiolo e Biblioteca conferma dell’unità del progetto iconografico federiciano perché gli autori classici più amati da Federico e maggiormente presenti nella Biblioteca sono proprio quelli ritratti negli Uomini illustri dello Studiolo.
Eccellenza dello Studiolo è la decorazione a tarsia a trompe-l’œil (220x360x335 centimetri): continuo rimbalzo fra architettura reale e dell’inganno a dilatare profondità e contorni dello spazio angusto e attenuarne le irregolarità perimetrali. La perfezione illusionistica delle prospettive intarsiate è frutto di una strabiliante esecuzione corale sia per quanto riguarda i disegni (Bartolomeo da Majano, Sandro Botticelli, Francesco di Giorgio Martini, lo stesso giovane Donato Bramante e, forse, Melozzo da Forlì) sia per quanto riguarda le tarsie (Benedetto e Giuliano da Majano e l’ebanista supremo del tempo: Baccio Pontelli), con essenze di studiati cromatismi: di base noce con inserti di pero, ciliegio, acero, pioppo, quercia, gelso e fusaggine. Le tarsie si rincorrono su tutte le pareti in tre livelli orizzontali: in alto, armadi ad ante traforate con libri, vasi, un paesaggio, le Virtù teologali e il ritratto «privato» di Federico; nella fascia mediana, le imprese ducali (motti e simboli araldici); nella fascia inferiore, seggi coi simboli delle Arti liberali del Trivio (Dialettica, Grammatica, Retorica) e del Quadrivio (Aritmetica, Astronomia, Geometria, Musica) come appena poggiati o dimenticati: libri, strumenti e partiture musicali, un astrolabio e una sfera armillare (modello della sfera celeste), uno scrittoio da viaggio, compassi e goniometri, clessidre e candele consumate («Tempus Fugit»), armi e armature qua e là rallegrate da stravaganze come esotici pappagalli o il mazzocchio (tipico berretto icona di Lorenzo il Magnifico). Intensa la presenziapresenza della musica: gli oggetti più rappresentati fra gli oggetti sono gli strumenti musicali, citazione della tradizione pitagorica e platonica di squisita eleganza cortegiana ante litteram.L’uso del trompe-l’œil è qui tanto più esplicativo perché, date le impervie dimensioni, lo Studiolo non poteva esporre gli oggetti collezionati da Federigo, in mostra invece nel sottostante Tempio di Apollo e delle muse, affrescato da Giovanni Santi, padre di Raffaello.
Sono tutti simboli sì delle Arti ma anche delle Virtù (la mazza per la Fortezza, la spada per la Giustizia ecc.), perché l'esercizio delle prime apre la strada alle seconde: non a caso, la parete nord mostra in cartiglio la citazione dal Libro IX dell’Eneide «Virtutibus itur ad astra», a indicare nell’iconografia dello Studiolo il perfezionamento interiore raggiungibile solo fondendo virtù ed intelletto. Ogni elemento s’inserisce in modo mirato in questo continuum (quasi horror vacui) a esibire il microcosmo personale di Federico: condottiero e uomo di cultura nell’ideale umanistico di Vita Attiva e Vita Contemplativa che, deposta l’armatura, si dedica nello Studiolo all’Otium.
Nel 1631, malamente tramontata la stella della casa Montefeltro-Della Rovere con la morte dell’iroso e sfortunato ultimo duca d’Urbino Francesco-Maria II e la devoluzione del Ducato allo Stato Pontificio, la perfezione è distrutta. «Quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini» disse Pasquino: le tentacolari arpagoniche mani di Urbano VIII spostano i ritratti a Roma nella raccolta personale del papa e poi in quella dell’ardente collezionista il cardinal nepote Antonio Barberini juniore (1607-1671). Nel 1812 la collezione andò suddivisa fra gli eredi Barberini-Colonna di Sciarra, Sacchetti e Corsini, eredi che, dopo decenni di peripezie e liti familiari, prima vendettero 14 quadri intorno al 1845 al famigerato collezionista malversatore delle finanze papali Giampietro Campana, la cui collezione fu confiscata nel 1857 dallo Stato Pontificio e frettolosamente svenduta allo zar Alessandro II (poi confluita nell’Ermitage di San Pietroburgo), al Metropolitan Museum di New York e, infine e nella maggioranza, nel 1861 a Napoleone III per il Louvre, dove i primi 14 dipinti si trovano tuttora. Le stesse famiglie ottennero nel 1934 l’acquisto da parte del Regno Italiano della gran parte della Collezione Barberini, fra cui i restanti 14 ritratti dello Studiolo, dallo Stato prontamente restituiti al Palazzo Ducale di Urbino ma solo nel 1983 riallestiti negli spazi originali.

Un particolare degli intarsi nello Studiolo di Federico da Montefeltro. © Galleria Nazionale delle Marche. Foto Claudio Ripalti
Sorte simile ebbe lo Studiolo cosiddetto di Guidubaldo (in realtà voluto e realizzato dal padre Federico, ma in una temperie più intima e con tematiche contemplative) che fino al 1874 rimase nella sua sede originaria nel Palazzo Ducale di Gubbio, per venire poi smontato e venduto nel 1874 (dal miope governo della neounificata «Italietta» umbertina) al romano principe e collezionista Filippo Lancellotti, che voleva evitarne la dispersione all’estero e lo rimontò a Villa Lancellotti Piccolomini a Frascati. Lì rimase fino al 1937, quando le circostanze imposero agli eredi Massimo-Lancellotti di cederlo al mercante d’arte americano Adolph Loewi, che lo vendette nel 1939 al Metropolitan Museum of Art di New York, dove tuttora è allestito.
Nell’opera globale di attualizzazione della Galleria Nazionale delle Marche intrapresa dall’attuale direttore Luigi Gallo rientrava il restauro e riallestimento dello Studiolo federiciano. Se infatti lo stato di conservazione di tavole e tarsie appariva ottimo, la rivisitazione museale del Palazzo Ducale ne ha permesso il completo smontaggio per verificarne l’effettiva salute e, dove necessario, l’intervento a scopo conservativo.
Modello dell’operazione sono stati l’analogo smontaggio degli anni Quaranta curato dall’allora direttore Pasquale Rotondi, costretto ad intervenire per garantire la salvezza del patrimonio artistico urbinate durante la Seconda gerra mondiale, e la dettagliata relazione del restauro condotto da Otello Caprara nel 1969-72, aggiornate allo stato dell’arte delle tecniche di restauro. Nell’autunno 2024, ritratti e tarsie sono stati trasportati nel laboratorio allestito ad hoc nell’Appartamento dei melaranci del Palazzo Ducale, dove sono stati realizzati gli interventi di manutenzione e sono stati successivamente inseriti in involucri in materiale plastico inerte nei quali l’atmosfera è stata gradualmente modificata secondo il procedimento di anossia (isolamento dei materiali in un ambiente privo di ossigeno per 30-40 giorni, così da eliminare ogni eventuale parassita presente nei legni) sostituendo l’ossigeno con azoto,
Il nuovo allestimento dello Studiolo che inaugura il 30 maggio mira a restituirne la lettura più simile possibile all’originale, anche a dispetto degli elementi non più disponibili, come un insieme strutturato di architettura e pittura, in cui la carpenteria giocò un ruolo non secondario a connettere lo spazio intarsiato con quello pittorico e col soffitto a cassettoni. In quest’ottica si inserisce la soluzione illuminotecnica a luce naturale (con l’aggiunta di alcuni puntamenti localizzati) mirata a ricreare l’antica atmosfera di ambiente vivibile e vissuto e a valorizzarne tutte le componenti.
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