Nadya Tolokonnikova all’interno dell’installazione «Putin’s Ashes», Container, Santa Fe. Foto Molly O’ Brien

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Nadya Tolokonnikova all’interno dell’installazione «Putin’s Ashes», Container, Santa Fe. Foto Molly O’ Brien

Un’installazione totale delle Pussy Riot per raccontare il trauma dell’opposizione

Nadya Tolokonnikova, una delle fondatrici del collettivo russo, racconta di come la sua arte sia legata al trauma della carcerazione in Siberia e di cosa voglia dire avere contro il governo di Putin

A Santa Fe, New Mexico, dal 30 giugno al 20 luglio, la porta della Container Gallery si apre su uno spazio in cui la resistenza porta i segni del dolore e ha i contorni dell’arte. Qui è in mostra «Putin’s Ashes», un’installazione immersiva che, mentre ripercorre l’estetica, la filosofia e la storia del collettivo russo Pussy Riot, è soprattutto un viaggio nei traumi e nella violenza subiti da Nadya Tolokonnikova, una delle creatrici del gruppo.

La mostra si sviluppa su due livelli. Al piano terra ci sono opere realizzate negli ultimi mesi e che raccontano l’esperienza che più ha segnato Tolokonnikova: l’arresto nel 2012 insieme ad altri due membri del collettivo a causa della performance «Punk Prayer». Nei due anni di carcere ai lavori forzati in Siberia, fu costretta a cucire uniformi militari con vecchi macchinari dalle componenti spesso rotte, con cui inevitabilmente si feriva le dita. Il sangue che spillava da quelle ferite ora è schizzato su raso incorniciato in peluche sui quali si leggono frasi come «this art is too political» o «this art neutralizes Vladimir Putin».

Più in là ci sono boccette di ceneri di Putin raccolte da una performance dell’anno scorso, in cui il gruppo bruciava un’immagine del presidente russo. Al centro, una casa delle bambole su cui si arrampicano, come creature invasive, i medicinali che Tolokonnikova deve prendere a causa del trauma della detenzione. Di sottofondo, musica e parole scritte da Bono Vox: «hai trasformato la tua rabbia in bellezza e la tua bellezza in rabbia».

Andando verso il piano superiore si passa tra una serie di video che mostrano alcune delle performance con cui Pussy Riot, che ha sempre usato l’estetica punk ma che non è mai stata una band («non sappiamo suonare né comporre musica», ci ha detto la fondatrice), ha fatto conoscere il suo nome al mondo. Salendo, si incontra una stanza che assomiglia a un privè di un locale notturno, ma i quadretti rosa che adornano le pareti incorniciano coltelli come quelli che si fabbricano in carcere con materiali di fortuna, forgiati, questi, da metallo recuperato da un carcere: strumenti di protezione improvvisati ma anche simboli di un potere femminile che Tolokonnikova impugna con fierezza.

Superata una proiezione della performance «Putin’s Ashes», si apre un corridoio segnato da luci rosse. Sul pavimento ancora schizzi di sangue. In fondo, una piccola stanza: una riproduzione della cella del carcere che per due anni è stata il mondo di Tolokonnikova. «Ho pensato che per l’opening me ne starò qui seduta a intagliare parole su questo tavolo con uno di quei coltelli da prigione. Quando le persone entreranno nella cella mi troveranno qui. D’altra parte non mi va di andarmene in giro con un bicchiere di champagne in mano».

È sicuro per lei trovarsi in mezzo alle persone e che si sappia dove si trova?
Non sono nota per preoccuparmi troppo della mia sicurezza [ride]. Judy Chicago, che è diventata un po’ la mia fata madrina artistica, dice che dovrei assumere una guardia del corpo. Non l’ho mai fatto e non credo lo farò, perché se il tuo governo vuole avvelenarti con un agente nervino di tipo militare, non c’è guardia del corpo che possa salvarti. Quindi seguo la corrente e spero non succeda niente. Ma in genere le persone che vengono a vedere le performance di Pussy Riot sono sempre molto rispettose della sicurezza, dello spazio personale, non ho mai avuto problemi. Sì, sono stata attaccata con una sostanza chimica, sono stata picchiata, ma sono sempre azioni mirate, create dal governo. Al di là di queste, se qualcuno mi riconosce e viene a parlarmi è sempre per dirmi che sto facendo cose buone per il Paese e per ringraziarmi.

La mostra è densa di contenuti e molto diretta. Cosa spera che ne ricavi il pubblico?
Personalmente non amo l’arte per l’arte. Cerco sempre di fare arte che abbia uno scopo, un significato oltre sé stessa. Credo ancora che l’arte possa essere più potente dei carri armati e dei proiettili, perché i proiettili possono penetrare solo il tuo corpo, mentre l’arte può davvero penetrare nella tua mente. La mia arte e questa mostra esprimono la frase: quest’arte è un’arma. E credo che l’arte possa avere un effetto a catena. Spero che le persone escano dalla mostra ispirate a cambiare il mondo in meglio.

Perché ha scelto un’installazione immersiva?
Vengo dalla tradizione di Ilya Kabakov, un artista concettuale russo il cui lavoro ho sempre ammirato e per questo mi piace definire quest’opera un’installazione totale. È stato lui a rendermi scettica rispetto alla scatola bianca e a convincermi dell’idea che un artista debba essere in controllo del contesto dell’opera, non solo dell’arte sul muro. Lo spazio tra le opere parla di più delle opere stesse. Poi ho iniziato come artista performativa, quindi è importante per me rompere la quarta parete.

Allo stesso tempo la mostra è molto intima, mette a nudo le sue fragilità. Cosa significa per lei condividere questi traumi?
Questa mostra, e la mia pratica in genere, è incentrata su due forze. Una forza è ciò che mi fa andare avanti, è coraggio, sogni, desiderio di fare le cose, di cambiare il mondo, di aiutare le persone. La seconda forza è la paura, il disturbo da stress post-traumatico, la depressione, tutto ciò che può farti smettere di credere nel tuo potenziale. C’è sempre questo tira e molla tra queste due forze e ogni giorno quando mi sveglio devo assicurarmi che sia la prima a vincere. Questa mostra nasce nel campo energetico tra questi due poli. Parla di un trauma, del prezzo che dobbiamo pagare per il fatto che facciamo rumore, per l’essere onesti, per perseguire la verità. Non sfuggo dal fatto che tutto questo è doloroso, ma trasformo quel dolore in qualcosa di significativo, in un atto di sfida e ribellione. E così costruisco la mia forza, la mia resilienza.

Fin dalle origini, Pussy Riot ha avuto un focus sulle questioni femminili e di genere. Qual è la situazione in Russia rispetto a questi temi?
I giovani, per buona parte, sono al passo con quello che succede nel mondo: molti si identificano come non binari o semplicemente non vogliono rientrare nei ruoli di genere tradizionali. Personalmente sono molto ottimista rispetto al potenziale della Russia. Al contrario di quello che è la nostra immagine al momento, c’è tanta gente che vuole solo essere un normale paese europeo, con accesso all’informazione e libertà personali.

Rispetto a quando avete iniziato, dopo altri 12 anni con Putin al governo, la Russia di oggi sembra essere un posto parecchio diverso. Questo cambia l’urgenza del vostro lavoro?
Credo che in pochi realizzino quanto drasticamente sia cambiata la Russia in questi anni. Ti faccio un esempio: nel 2008, il 7 novembre, giorno della Rivoluzione russa, abbiamo fatto un’azione: facemmo una proiezione sulla facciata della Casa Bianca, entrammo nel recinto con tanto di telecamere di sicurezza e scappammo via. Nessuno ci ha fermato, nessuno ci ha inseguito. Arriviamo al 2012 e veniamo arrestate per «Punk Prayer», un’azione puramente simbolica, in cui ballammo per 40 secondi: siamo finite in carcere per due anni. Il nostro arresto avvenne in concomitanza con le elezioni, quasi come un gesto artistico di Putin [ride]. Noi siamo state le prime ad essere arrestate, ma non le uniche. Quando sono uscita di prigione, non riuscivo a riconoscere il mio paese: in quei due anni lo scenario politico era completamente cambiato, la censura era molto più forte e la gente era spaventata. Poi c’è stata l’annessione della Crimea ed è stato l’inizio della fine: ha segnato l’annientamento dei media indipendenti, tanto che abbiamo deciso di creare un nostro mezzo di informazione, Mediazona, che oggi è una delle voci indipendenti più importanti in Russia.

Poi c’è stata l’invasione dell’Ucraina…
Il 2022 è stato l’anno cruciale per la distruzione della libertà in Russia, Putin doveva assicurarsi che tutto fosse a tenuta stagna. Si stavano preparando per questa invasione da un po’. Oggi lo apprendiamo dall’intelligence americana, ma lo sappiamo anche per nostra esperienza, perché tutti gli attivisti di Pussy Riot sono stati sottoposti a enormi pressioni e controlli per circa un anno prima dell’invasione. Non facevano altro che arrestarci, ogni mese, senza motivo. Uscivi di casa e ti arrestavano. Lo chiamano arresto preventivo: possono metterti in carcere senza una ragione. E siccome questa non era la vita che volevamo vivere, abbiamo provato a resistere, ma poi un po’ alla volta ce ne siamo andate. E poi è iniziata la guerra. E oggi basta un post su Instagram per finire in carcere.

In questo scenario, è possibile per l’arte contribuire alla conversazione politica e sociale oggi?
Beh no, devi essere fuori dalla Russia per parlare liberamente. Ho amici che hanno deciso consapevolmente di rimanere e che si concentrano maggiormente su problematiche sociali e sulla costruzione di comunità, evitando di proposito i grandi argomenti politici. Altri lasciano la Russia. Altri prendono le armi.

Esiste una collaborazione tra artisti e oppositori che vivono fuori, esiste un movimento?
La comunità dell’opposizione russa è abbastanza unita, anche perché non siamo così tanti, almeno quelli che sono un po’ il nucleo, l’anima, l’azione. Io sono in contatto con il team di Navalny e con altre organizzazioni in diverse città, anche a sostegno dell’Ucraina.

Ha collaborazione con artisti ucraini?
Andammo per la prima volta a Kiev nel 2008 e già allora notavo che è molto più facile collaborare con artisti e attivisti ucraini perché non sono spaventati come i russi. Negli anni ho costruito molte connessioni con artisti, attivisti e persino membri del parlamento ucraini. Con l’invasione i rapporti tra russi e ucraini sono diventati più difficili, ma ci sono ancora tante persone disposte a collaborare. Per esempio, delle donne che hanno partecipato a Putin’s Ashes molte erano ucraine, alcune delle quali di recente fuggite dalla guerra. Negli anni sono andata spesso in Ucraina anche solo per decomprimere e imparare dalla loro fiera resistenza all’ingiustizia. Sono stati di grande ispirazione sin dalla prima rivoluzione arancione, nel 2004. È incredibile come abbiano deciso di scendere in piazza rifiutandosi di andarsene fino a quando le loro richieste non fossero state soddisfatte. Ho sempre sognato di vedere qualcosa del genere in Russia. Non è ancora mai successo, ma un giorno, si spera…
 

Una veduta dell’installazione «Putin’s Ashes» delle Pussy Riot, Container, Santa Fe. Foto Molly O’ Brien

Nadya Tolokonnikova all’interno dell’installazione «Putin’s Ashes», Container, Santa Fe. Foto Molly O’ Brien

Una veduta dell’installazione «Putin’s Ashes» delle Pussy Riot, Container, Santa Fe. Foto Molly O’ Brien

Una veduta dell’installazione «Putin’s Ashes», Container, Santa Fe. Foto Molly O’ Brien

Nadya Tolokonnikova all’interno dell’installazione «Putin’s Ashes», Container, Santa Fe. Foto Molly O’ Brien

Maurita Cardone, 05 luglio 2023 | © Riproduzione riservata

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