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Elmgreen & Dragset, October 2025. ©Thomas Lannes courtesy MASSIMODECARLO

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Elmgreen & Dragset, October 2025. ©Thomas Lannes courtesy MASSIMODECARLO

Un’assistente di galleria dorme in vetrina a Parigi

Quella di Elmgreen & Dragset in occasione di Art Basel Paris 2025 non è solo una nuova installazione, ma il ritratto della stanchezza di un intero sistema.

Giorgia Aprosio

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Art Basel Paris è ormai diventata una delle fiere determinanti per il calendario internazionale. Durante la settimana dell'evento, le gallerie parigine giocano il tutto per tutto con mostre pensate come biglietti da visita per i visitatori stranieri - progetti su cui costruire immagine, reputazione e futuro. Passeggiando per la città alla vigilia dell'apertura, ogni quartiere è un concentrato di tensione e aspettative. Inaugurazioni anticipate, opening sincronizzati, vetrine tirate a lucido per intercettare i collezionisti arrivati prima dei VIP days. Nei distretti dove l'arte contemporanea si addensa - dal Marais a Saint-Germain, passando per Belleville - si percepisce una frenesia elettrica, una corsa collettiva per esserci, mostrarsi, vendere.

In Rue de Turenne, cuore del Marais, la concentrazione è massima. Da Perrotin ad Almine Rech si rincorrono le mostre fino al numero 57, dove qualcosa si interrompe. Dietro la vetrina di MASSIMODECARLO, un’assistente di galleria dorme, la testa poggiata sul desk. Una scena ferma, quasi dissonante. Proprio ora che la città corre da un opening all’altro. L’opera si intitola October 2025 ed è la seconda presentazione del duo scandinavo Elmgreen & Dragset nello spazio Pièce Unique, in cui gli artisti ribaltano le regole del white cube portando in scena ciò che di solito resta nascosto: ciò che normalmente sta sul retro della galleria - l’ufficio, il lavoro invisibile.

L’assistente, scolpita in modo iperrealistico, resterà in vetrina giorno e notte fino al 31 ottobre 2025, chiudendo simbolicamente il mese più febbrile dell’anno per il sistema dell’arte parigino.

Michael Elmgreen (Copenaghen, 1961) e Ingar Dragset (Trondheim, 1969) lavorano insieme dal 1995. Vivono a Berlino e sono noti per trasformare elementi del quotidiano in allegorie asciutte e taglienti delle dinamiche sociali e politiche contemporanee. Li avevamo lasciati a Parigi solo un anno fa, con la mostra istituzionale L’Addition al Musée d’Orsay, per ritrovarli ora in città con un intervento così radicale da far chiedere ai passanti se si tratti davvero di un’opera.

La figura dormiente - una donna dai capelli biondo cenere, décolleté nere con tacco, camicetta color cipria e pantaloni grigi - evoca quella che in Italia viene ancora spesso chiamata, con tono riduttivo e sessista, “gallerina”: un termine che trasforma una professionista in una figurina di contorno, dicendo molto più del contesto che le ruota attorno che di lei. Mettendola in vetrina mentre dorme, Elmgreen & Dragset ribaltano il cliché, restituendole peso e visibilità e trasformandola nel simbolo di un’intera categoria di lavoratori invisibili nella settimana dell'arte più in vista dell'anno. Solo a marzo, Anna Brady riportava sulle pagine de Il Giornale dell’Arte i risultati di uno studio condotto da SML e ArtTactic sulle condizioni lavorative nel settore. La soddisfazione salariale dei dipendenti è diminuita del 19,6% rispetto al 2022, con i guadagni medi negli Stati Uniti scesi da 75.000 a 70.000 dollari. In Europa il quadro appare solo leggermente migliore: gli stipendi crescono in base alla dimensione delle aziende, ma la maggior parte dei lavori (62,6%) resta in presenza anche quando non strettamente necessario - soprattutto nel settore delle gallerie, dove la percentuale sale all’82,7%.

Tra le altre cose, osservava Brady, lo studio sottolinea come nel settore artistico-culturale una formazione universitaria o post-universitaria non garantisca retribuzioni più alte, e come molti dipendenti - soprattutto quelli delle piccole realtà - siano spesso costretti ad avere un secondo lavoro per integrare il reddito. Un trend in crescita che riflette la realtà di molti trentenni del settore, probabilmente la stessa generazione incarnata dall’assistente addormentata in vetrina.

Donne come lei rappresentano la stragrande maggioranza dei laureati in storia dell’arte, un dato coerente con il numero di lavoratrici effettivamente impiegate nel settore. Peccato che questa presenza non si traduca in ruoli di potere: nelle gallerie e nelle istituzioni culturali le impiegate di sesso femminile sono la maggioranza del personale, ma restano largamente escluse dai vertici. A parità di ruolo, il divario salariale può superare il 15–20%, e la percentuale di direttrici o partner nelle gallerie commerciali resta minoritaria. Dietro l’assistente iperrealista si condensano così le gerarchie silenziose e gli squilibri strutturali del sistema dell’arte, dove la forza lavoro è spesso femminile, giovane e precaria.

Come hanno dichiarato gli artisti in occasione di Useless Bodies?, una delle indagini tematiche più estese mai realizzate dalla Fondazione Prada a Milano nel 2022: “Purtroppo per molte persone, soprattutto donne, la prospettiva della servitù non è una cosa del passato. L’uniforme può anche essere scomparsa in molti luoghi di lavoro, ma ciò non significa che le gerarchie e gli squilibri di potere non siano ancora attuali. Anzi, si sono rafforzati e al tempo stesso sono diventati più difficili da individuare e da affrontare direttamente.”

E non è un caso che chiunque abbia visto quella mostra fatichi a non pensarci davanti a October, 2025. L’assistente di galleria sembra aver preso posto in una delle scrivanie vuote allineate al primo piano del Podium, in quella sfilza di visioni distopiche di spazi lavorativi svuotati di umanità. In questo senso, la riflessione degli artisti sulla crisi del lavoro e sul corpo come unità produttiva in disuso continua. “I nostri corpi non sono più i soggetti attivi delle nostre esistenze. Diversamente da quanto accadeva nell’era industriale, oggi non generano più valore: si potrebbe dire che le nostre identità fisiche siano diventate più un ostacolo che un vantaggio.” Raccontavano allora - con parole che oggi spiegano perfettamente come, dietro l’assistente addormentata, si nasconda anche il corpo simbolico del sistema dell’arte stesso: stanco, iper-esposto e allo stesso tempo, paradossalmente, invisibile.

Le numerose chiusure di gallerie degli ultimi mesi - compresse fra costi crescenti e ricavi sempre più fragili - indicano qualcosa di più di una congiuntura sfavorevole. Segnalano la persistenza di un modello che fatica ad aggiornarsi: un sistema ancora ancorato a pratiche divenute, nel tempo, economicamente e operativamente insostenibili. Per restare allineate a un presunto canone di “buone pratiche”, molte gallerie hanno a lungo sostenuto canoni in quartieri gentrificati delle città più care del mondo. A ciò si somma il subaffitto di spazi-padiglione all’interno delle fiere, spesso in altre città, alimentando una standardizzazione del contesto espositivo che rende gli ambienti indistinguibili fra New York, Londra, Parigi, Hong Kong, Seoul o Shanghai. È sufficiente un’improvvisa turbolenza geopolitica perché questo equilibrio si incrini.

Non è più la galleria ad attrarre strutturalmente il pubblico, come accadeva nell’epoca dei grandi galleristi storici: oggi è la galleria a muoversi verso il cliente. Questo spostamento ridefinisce la natura stessa della dinamica commerciale e dello spazio espositivo contemporaneo, incidendo alla lunga anche sulla sua capacità economica di assumersi rischi: sperimentare, sostenere progetti di ricerca, investire su artisti emergenti o su pratiche meno immediatamente traducibili in mercato. Le risposte delle realtà più giovani vanno in direzioni apparentemente opposte ma convergenti: c’è chi rinuncia alle fiere, e chi invece normalizza l’occasionalità attraverso pop-up in sedi a noleggio scelte per la loro specificità architettonica prediligendo l’aspetto progettuale. Pur nel divergere delle strategie è in entrambi i casi l’online a regolare la comunicazione dell’offerta e la costruzione del brand. In questo senso, non solo l’opera degli artisti, ma anche la scelta di MASSIMODECARLO appare come un’operazione critica tanto coraggiosa quanto lucida: in una settimana in cui tutto converge verso la vetrina - visibilità, mercato, consenso - la galleria, da sempre sensibile al contemporaneo, sceglie di portare in scena il blackout, la pausa, la resa.

Elmgreen & Dragset, October 2025 © Thomas Lannes courtesy MASSIMODECARLO

Giorgia Aprosio, 16 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

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