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Nicoletta Biglietti
Leggi i suoi articoliTre atti, tre pratiche e un bagliore: quello del riconoscersi in un gesto, in una tela o in uno sguardo. Un bagliore che non grida, pulsa. Che non spiega, rivela. Perché Anneliese Pichler, Erjola Zhuka e Giuseppe Marinelli sono tre artisti diversi per origine, generazione e medium. E nella mostra al Museo d’Arte Contemporanea di Cavalese (Trento) non c’è nessuna forzatura tematica a legarli. Nessuna costrizione concettuale a incasellarli. Se non quel filo sottile che unisce l’arte alla natura e l’essere al percepire. «Tre Atti. Pichler, Zhuka, Marinelli», curata dalla direttrice del Museo Elsa Barbieri e in scena fino al 2 novembre 2025, è un progetto che non occupa «solo» le sale del Palazzo Rizzoli: le attraversa, le supera. Include il paesaggio del Rio Gambis, torrente che scorre nel comune fiemmese, mettendo «in gioco le logiche dell’umanità, come ultima risorsa per non scomparire».
Nel primo dei tre atti, Anneliese Pichler (Cavalese, 1962) porta in scena una pittura materica e gestuale. Nei suoi lavori ogni traccia, macchia e scelta cromatica rimanda a una tensione interna. A una vibrazione corporea da cui il gesto pittorico diventa linguaggio di un Sé profondo. «Come si comincia un quadro? – riporta una poesia dell’artista che, insieme ad altri esercizi di scrittura, campeggia sui muri del museo – In punta di piedi. In punta di mano. Il desiderio diventa pensiero. E mentre questo accade, c’è malessere, urgenza». Perché l’arte di Pichler è come un istintivo – ma ordinato – flusso di coscienza. Un sentire che rivela la profondità di un pensiero appena portato alla luce.
Un caso emblematico è l’opera «Tunica Mondi», di cui l’artista rivela la genesi e il processo ideativo: «l’opera ha preso forma nei giorni successivi al ritorno dei talebani al potere in Afghanistan, mentre sui media internazionali riemergevano con forza le immagini della sofferenza femminile. È in quel contesto che mi sono interrogata sul senso, se è possibile trovarlo, di tanta oppressione e sull’urgenza di un gesto che potesse accogliere, rappresentare e forse lenire quel dolore». La risposta è arrivata nella forma di un sudario: una tunica intesa come protezione, salvezza e riparo. Un oggetto simbolico che si fa corpo, pelle e superficie in grado di contenere una così grande ferita umana. Non solo quella delle donne afghane, ma di ogni soggetto sottomesso, negato, annientato, per il quale l’abisso della realtà si fa sempre più grande.

«Tre Atti. Pichler, Zhuka, Marinelli». Installation view, Museo Arte Contemporanea Cavalese. Ph. Erjola Zhuka
Un abisso che si ritrova come contatto fisico-visivo nelle fotografie di Erjola Zhuka (Durazzo, 1986), artista albanese che da anni vive e lavora in Italia: in una prima serie, ad esempio, vengono ritratte donne anziane kosovare e albanesi mentre fanno il bagno nel mare di Durazzo. Nessuna estetizzazione, nessun filtro. Perché – come afferma lei stessa– «fotografare “l’oscenità” del vero significa interessarsi al mondo, non interpretarlo». E la sua è una fotografia che né consola né abbellisce: scava, espone e, se necessario,«ferisce». I suoi soggetti sono corpi reali, imperfetti, segnati dalla storia e dal tempo. Ma è proprio restituendo dignità all’ordinario che Zhuka racconta ciò che solitamente viene nascosto, celato. È un moto che dalla superficie va alla profondità, dal dettaglio alla totalità in cui l’umanità si rivela (e rivede) nel suo stesso disvelarsi.

Erjola Zhuka, «MyTh-ing», 2022 – in corso. Stampa inkjet su carta Hahnemühle Ultra Smooth Cotton, montata su dibond 3 mm, cornice americana in legno. Dimensioni variabili
Ma se con Zhuka si fa un processo dall’esterno all’interno, è con Giuseppe Marinelli (Castellana Grotte, 1990) che il moto si inverte. L’artista parte da un nucleo simbolico – quello dello spirito, dell’archetipo animale – per poi ricostruire la materia. Utilizza veri teschi di animali rinvenuti nei boschi per modellarne il corpo attraverso il filo d’acciaio, in una pratica manuale e paziente. Il risultato sono sculture essenziali che sembrano ridare fisicità a presenze sospese, restituendo loro memoria e forma. A differenza del corpo originario, destinato alla disgregazione, quello ricostruito da Marinelli è pensato per entrare in relazione con il territorio. Non rappresenta la natura, ma vi si reintegra. Le sue opere infatti si trovano sia all’interno del museo sia lungo il percorso naturale del Rio Gambis. Visibili anche nelle ore notturne, diventano parte di un paesaggio che le modificherà nel corso del tempo, stabilendo un dialogo ancora più diretto tra arte e ambiente.
E proprio in questo spazio di interazione ciascuno dei tre artisti lavora lungo un confine: tra visibile e invisibile, tra corpo e linguaggio, tra astrazione e concretezza. Ma sono quei confronti, quei non-detti e quei vuoti tra un’opera e l’altra, che innescano il bagliore di cui parla Barbieri. «Tre Atti» – sostenuta dalla Regione Trentino-Alto Adige, dal Comune di Cavalese e da realtà locali come Cassa Rurale Val di Fiemme, APT Fiemme Cembra, Pro Loco e Magnifica Comunità di Fiemme – non si configura come mostra tematica, ma come processo aperto. Invita a guardare, a sostare, a lasciarsi coinvolgere. E il museo, in questo contesto, diventa spazio poroso, permeabile. «Interno-esterno-interno», scrive Pichler all’ingresso del percorso espositivo: una dichiarazione d’intenti che riassume l’impostazione complessiva. Perchè è vero, Pichler, Zhuka e Marinelli non condividono un linguaggio né una visione, ma si ritrovano in un’attitudine comune: quella di chi guarda il mondo senza giudicarlo, lasciandosi attraversare. Senza spiegare, rivelano. Senza urlare, fanno luce. Un bagliore, appunto. Di quelli che non si impongono, ma restano impressi.

«Tre Atti. Pichler, Zhuka, Marinelli». Installation view, Museo Arte Contemporanea Cavalese. Ph. Erjola Zhuka
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