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William Farr, «Attachment 4» (dettaglio).

Credits Miranda Papadopoulou. Courtesy of the Artist and RUBEDO.

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William Farr, «Attachment 4» (dettaglio).

Credits Miranda Papadopoulou. Courtesy of the Artist and RUBEDO.

Le tele di William Farr sono creature vive animate da un impulso che sfugge ad ogni controllo

La mostra «Attachment» di William Farr debutta al Palazzo Cramer di Milano. Tre grandi tele vibranti, accompagnate da frequenze sub-udibili e una fragranza olfattiva, trasformano lo spazio in un’esperienza multisensoriale che unisce corpo, percezione e arte

Nicoletta Biglietti

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«Mi maltrattano più di quanto io le possieda». Così William Farr parla dei suoi dipinti, come fossero creature vive, autonome, animate da un impulso che sfugge al suo controllo. Nella sua nuova mostra – «Attachment», prodotta da RUBEDO, e che ha inaugurato il 6 Novembre al Palazzo Cramer (GoLab), Milano – questa frase si traduce in un’esperienza percettiva che coinvolge corpo e mente. Perché le opere non si osservano soltanto, si sentono. Vibrano, tremano, si muovono appena, in un’oscillazione che tocca lo spettatore prima ancora dello sguardo. L’arte, per Farr, diventa «orizzonte e mezzo», un modo per attraversare la sopportazione, trasformare il dolore e restare in ascolto. Nello studio dell’artista, tre grandi tele si ergono nello spazio, appoggiate su supporti metallici costruiti dal padre. Non sono appese, non sono fissate: sono tenute in piedi, angolate ma separate, come presenze che si sostengono da sole.

Da dietro, altoparlanti emettono frequenze sub-udibili. Non si sentono con l’orecchio, ma si percepiscono nel corpo: un basso ronzio nello sterno, un tremito sottile nelle dita dei piedi. È un incontro fisico, diretto, che traduce in materia la tensione tra presenza e sensazione, tra forma e vibrazione. E quel «Mi maltrattano più di quanto io le possieda» è una confessione, ma anche una dichiarazione di poetica. L’opera lo sovrasta, lo attraversa, lo costringe a un confronto costante con sé stesso. La pittura diventa un campo di forze, un evento più che un oggetto: tremante, pulsante, vivo. Nel tempo che separa questa mostra dalla precedente, Farr ha scelto il silenzio. Cento ore di quiete assoluta: senza scrittura, senza tecnologia, senza distrazioni. Ne è emerso non un senso di chiarezza, ma di confronto. Con il dolore, con la sofferenza, con l’illusione di sé. Colpi di frusta emotivi, angoscia, intrappolamento: tutto si è trasformato in attenzione. «Ho imparato ad amare il dolore», racconta. «A guardarlo evaporare. A coglierne i cambiamenti, la sua natura adattativa». È da questa disciplina che nasce il gesto pittorico, come osservazione della sensazione senza tentare di afferrarla.

Ciò che resta sulla tela non è immagine, ma traccia. Colore e forma diventano residui fisici di un’esperienza, segni di un attraversamento. La pittura non consola, ma espone; non risolve, ma indaga. Farr sembra oscillare tra due esigenze inconciliabili: quella di creare, e quella di lasciar andare. «Perché offrire permanenza in un mondo che ci insegna a lasciar andare?», si chiede. Eppure, continua a dipingere. La contraddizione è parte del processo. Il dolore si trasforma in una qualità dell’esperienza, il piacere nel suo inevitabile contrappunto, la consapevolezza li abbraccia entrambi.
L’introduzione del bianco segna un punto di svolta. Fino a poco tempo fa, Farr lo evitava; ora diventa soglia, respiro, apertura. Mescolato a primer, crea trasparenze fluttuanti e campi di movimento. Il bianco non è assenza, ma spazio di profondità e unione, luogo dove il tempo si sospende e la materia si libera. Una forma di liberazione euforica, dunque, che equilibra l’elettricità dei suoi colori, come un ritorno al vuoto da cui tutto nasce.

In questo percorso di tensione e rilascio si inserisce «Attachment», parola che attraversa l’intera mostra. In italiano, nessuna traduzione univoca: allegato, legame, innesto, vincolo, attaccamento. Ogni sfumatura ne svela una parte. Le opere di Farr si collocano dentro questa molteplicità: ancorate ma espansive, tecniche ma delicate. Sono parte di lui tanto quanto lui è parte di esse. «A livello subatomico, spiega, condividiamo lo spazio dello studio, raggruppando parti mutevoli, assumendo quelle degli altri» Nel processo, frammenti di sé — pelle, capelli, residui — restano nelle tele. Nulla è intero, tutto è in divenire.

L’esperienza della mostra è amplificata da un elemento inedito: la fragranza creata da Nuria du Chêne de Vère come estensione olfattiva delle opere. Un lavoro sviluppato in ascolto, a distanza, tra Milano e Londra, attraverso la stessa playlist che ha accompagnato Farr durante la realizzazione dei dipinti. La fragranza avvolge il visitatore come un’eco sensoriale: una base ambrata di labdano, patchouli, legno di guaiaco e zafferano, una nota brillante di cardamomo, e sfumature di incenso, fumo, pelle scamosciata. Infine, l’assenzio — nota alcolica e poetica — invita al lasciarsi andare, come un respiro profondo dentro la materia. La mostra si fa così esperienza immersiva e totale: pittura, suono, corpo e profumo si intrecciano in un linguaggio comune. «Attachment» è il nome di questa connessione, un campo di forze dove arte e presenza coincidono, dove la fragilità diventa forza e la vibrazione si trasforma in una forma di preghiera silenziosa.

Installation view «William Farr. Attachment». Nell'immagine «Attachment 9» e «Attachment 11». Credits Miranda Papadopoulou. Courtesy of the Artist and RUBEDO

Nicoletta Biglietti, 08 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

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