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Tatxo Benet nel suo museo

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Tatxo Benet nel suo museo

Tatxo Benet apre il Museo dell’Arte Proibita

Dalla Palestina alla violenza sulle donne, l’arte è politica e vittima di censura. «E io la difendo», spiega l’imprenditore e collezionista che ha inaugurato il suo museo a Barcellona

Roberta Bosco

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Di fronte all’incapacità dei Governi e delle diplomazie occidentali di risolvere un conflitto, quello tra Palestina e Israele, che loro stessi hanno creato, l’arte propone approcci alternativi, come quello dell’artista palestinese Larissa Sansour che risponde all’angoscia con l’ironia. Nel video «Nation Estate», tutti gli abitanti di Gaza e dei territori occupati sono stipati in un gigantesco grattacielo con un ascensore dove al posto dei piani ci sono i nomi delle città palestinesi. La forza delle immagini, distopiche e futuribili, riesce a trasmettere in nove minuti un malessere atavico, un disagio profondo che non richiede né violenza né slogan. Per questo nel 2011 fu selezionato tra gli otto finalisti del premio Elysée, sponsorizzato dal brand Lacoste e organizzato dal Musée de l’Elysée di Losanna, ma pochi giorni prima della decisione della giuria, l’opera fu eliminata dalla rosa dei candidati. Secondo lo sponsor il suo lavoro non rifletteva lo spirito del premio: la gioia di vivere.

Il video adesso fa parte del Museo dell’Arte Proibita, la straordinaria collezione di opere riunite dal giornalista, editore, produttore televisivo e impresario Tatxo Benet (66 anni, vero nome Josep María Benet Ferran) a partire da un’unica premessa: che siano state vittima di censura. Dopo aver organizzato alcune mostre, che hanno dimostrato l’interesse del pubblico per l’argomento, Benet ha deciso di aprire un museo il 25 ottobre nella splendida Casa Garriga Nogués, antica sede della Fondazione Mapfre, dove ora sono esposte 42 delle oltre 200 opere della collezione. «Finora l’unico criterio era la censura, ma di fronte al gran numero di opere discriminate e alla risposta del pubblico vogliamo articolare il discorso ed ampliare la riflessione, collezionando anche la storia, le polemiche e il dibattito che circonda queste opere», spiega il direttore artistico Carles Guerra, ex curatore capo del Macba e ex direttore della Fondazione Tàpies, coadiuvato da Rosa Rodrigo.
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Nel 2018 Tatxo Benet comprò la famosa opera «Prigionieri politici nella Spagna contemporanea» di Santiago Sierra, giusto un’ora prima che fosse censurata dalla direzione di Arco Madrid, la più importante fiera d’arte spagnola. Da allora non ha più smesso di cercare opere, vittime del loro contenuto. La censura è multiforme, non viene da un unico lato e a volte è cosi subdola che riesce a convincere il proprio artista dell’inadeguatezza del suo lavoro. È il caso di «Silent Rouge et Bleu» (2014) di Zoulikha Bouabdellah, un’installazione sulla condizione delle donne musulmane, che unisce tappeti da preghiera e vertiginosi tacchi a spillo. Si doveva esporre a Parigi, ma in seguito alla tensione generata dagli attentati contro Charlie Hebdo, si fece pressione sull’artista convincendola ad autocensurarsi. «Se l’artista si sente minacciato la sua opera non sarà mai del tutto libera, diceva Salman Rushdie», ricorda Tatxo Benet. La raccolta si concentra sull’arte contemporanea, ma è aperta a qualsiasi periodo. «Ho acquistato una prima edizione de "I Capricci" di Goya del 1799. Ero indeciso, ma poi ho pensato che era importante ricordare dove affondano le radici della censura», ricorda Benet. Che cita «una sentenza del Tribunale supremo degli Stati Uniti del 1971 che stabilisce il criterio di base della libertà d’espressione: nessuno ha il diritto di fissare il canone del buon gusto, né di ciò che è arte o no. Ciò che per alcuni è volgarità per altri è poesia».

I tempi cambiano e la censura anche, ma non sparisce. Per esempio una fotografia di Terry O’Neill con Raquel Welch crocefissa era stata censurata nel 1966 e, dopo aver trascorso 30 anni chiusa in un cassetto, alla fine degli anni ’90 è diventata la copertina del «Sunday Times». Al contrario «Consumer art» dell’artista femminista polacca Natalia LL era stata esposta a Varsavia negli anni ’70 con grande successo, per poi essere censurata nel 2019 per il suo contenuto giudicato «pornografico» (rappresenta una donna che mangia una banana). L’episodio ha provocato grandi proteste. Per questo l’allestimento comprende anche una cabina fotografica in cui il pubblico può riprodurre la scena incriminata che andrà a formare in gigantesco collage visivo.

«Ogni opera ha una storia, drammatica o ridicola, ma sempre vergognosa e nessuno è al sicuro dalla minaccia», continua il collezionista. Le opere che ora espone sono qui a dimostrarlo. Non importa se sono artisti giovani o consacrati. Ne hanno sofferto anche Picasso, Barceló, Klimt, Warhol, Mapplethorpe, Ai Weiwei, Antoni Muntadas, Andres Serrano o Pierre Molinier, precursore dell’arte queer che fu censurato niente meno che da André Breton.
Neppure il Paese di provenienza costituisce una garanzia, anche se opporsi all’establishment in alcuni risulta molto più pericoloso che in altri. Per esempio in Kirghizstan per aver esposto un sacco da pugilato a forma di donna una mostra è stata attaccata da un gruppo di persone deciso a distruggere la scultura. L’artista Zoya Falkova e la direttrice del museo Mira Dzhangaracheva sono state costrette ad abbandonare il Paese in seguito a minacce di morte.

Roberta Bosco, 27 ottobre 2023 | © Riproduzione riservata

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