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Maurita Cardone
Leggi i suoi articoliNegli ultimi tempi le istituzioni culturali nordamericane sono state costrette a ripensare il proprio passato ed eredità e a ricontestualizzare le proprie collezioni (e gli stessi luoghi che occupano) alla luce di una diversa consapevolezza che riconosca i legami con il colonialismo e la schiavitù.
Molto pubblicizzata è stata per esempio l’iniziativa con cui, l’anno scorso, il Metropolitan Museum di New York ha installato all’esterno della sua sede una targa che riconosce il fatto che il museo sorge su terra un tempo popolata dai Lenape, genti native del territorio che oggi è compreso negli Stati di New York, New Jersey e Delaware.
La targa è completata da una dichiarazione di intenti che accompagna l’esposizione dedicata all’arte nativoamericana e spiega che il museo si impegna a creare relazioni con artisti indigeni contemporanei e con le comunità che hanno originariamente prodotto gli oggetti d’arte e i manufatti oggi nella collezione del Met.
Il museo ha inoltre nominato un curatore specifico per l’arte nativoamericana, Patricia Marroquin Norby, la prima a ricoprire un ruolo del genere nei 150 anni di storia del Met. Sempre a New York, anche il New Museum ha voluto riconoscere che la sua sede sorge su terra appartenuta alle popolazioni indigene sterminate dai colonizzatori europei. Sul suo sito web il museo ha reso omaggio al passato afroamericano di Lower Manhattan, luogo in cui sorge l’istituzione, che a fine Settecento ospitava il secondo cimitero afroamericano della città e una delle prime comunità di schiavi liberati.
Iniziative simili sono state prese da altre istituzioni culturali tra gli Usa e il Canada, mentre alcuni musei stanno ripensando le proprie gallerie dedicate all’arte dei nativi americani, nonché il modo in cui viene raccontata la storia e la cultura delle comunità di schiavi africani.
Ma, mentre tutti auspicano un coinvolgimento diretto delle comunità che hanno finora subito la parzialità della visione storica dei popoli colonizzatori, c’è chi non è soddisfatto delle dichiarazioni di intenti e delle targhe sui muri.
Per molti si tratta dell’ennesimo fenomeno di «alleanza ottica», termine coniato dall’autrice e attivista Latham Thomas per definire quel tipo di alleanza formale che si limita alle dichiarazioni ma non va sotto la superficie per destrutturare i sistemi di potere.

La targa fatta installare dal Metropolitan Museum di New York all’esterno della sua sede
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