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Le sculture di Karla Black sono di grandi dimensioni, ma lievi, quasi inconsistenti, precarie e «soffici», eppure (talora) inquietanti. Regalano, infatti, esperienze sensoriali che coinvolgono in profondità, radicate come sono nell’inconscio collettivo o nella memoria condivisa, e sono perciò capaci di agire sull’osservatore operando tanto sul piano estetico quanto su quello psichico e psicologico.
Per ottenere questi risultati la Black (Alexandria, Scozia, 1972; vive e lavora a Glasgow) si serve dei materiali più diversi, come i grandi fogli traslucidi di cellophane, sospesi tra soffitto e pavimento, che con i loro colori diafani creano forme fluttuanti, oppure oggetti della quotidianità: rossetti, creme e altri cosmetici (i cui aromi entrano in gioco nella percezione multisensoriale dell’opera) e poi bambagia, polvere e altro. E li accosta a materie che appartengono tradizionalmente alle pratiche dell’arte, come il gesso, il carboncino, i colori acrilici, la carta.
Empatico e fortemente coinvolgente, il lavoro della Black da un lato si nutre del pensiero psicoanalitico e del femminismo, dall’altro scaturisce dalle esperienze della Land art, della performance e del messaggio di Joseph Beuys, realizzando costruzioni volutamente instabili, effimere, mai «monumentali». Per la mostra da Raffaella Cortese, che occupa fino all’11 marzo tutte e tre le sedi della galleria, ha creato una serie di sculture astratte, nelle quali esplora gli effetti visivi e tattili delle diverse materie, regalando ai visitatori un’esperienza (com’è stato efficacemente suggerito) di «arte olistica».
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