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Francesco Tiradritti
Leggi i suoi articoliIl Cairo. Al rientro dai miei viaggi in Africa nord-orientale, quando c’è una guerra o una rivoluzione nel Vicino o Medio Oriente, mi chiedono quali difficoltà e pericoli io abbia affrontato e in che situazione viva la gente del posto. Alla prima domanda replico che non ho avuto alcun problema. Alla seconda rispondo chiedendo all’interlocutore, se è abbastanza in là con l’età, come viveva nei primi anni Novanta quando la Jugoslavia era dilaniata da guerre sanguinose. L’Adriatico è più o meno ampio come il Mar Rosso e Il Cairo è lontana da Gerusalemme circa 400 chilometri, più o meno quanto Trieste da Sarajevo.
Nei tre giorni che ho trascorso a visitare i musei del Cairo la parola «harb» (guerra) si è spesso affacciata nelle conversazioni. Il conflitto appare lontano e, al massimo, si maledice Israele. Non si scandalizzino i lettori che vedono antisemitismo ovunque. Gli egiziani non possono essere considerati tali in quanto sono anche loro semiti e fanno anzi molta attenzione a distinguere Israele da ebrei. In Egitto la situazione non è comunque considerata pericolosa. Alcuni tra i vecchi curatori ricordano ancora le protezioni, che ho visto anch’io, dei lucernari del Museo Egizio poste negli anni Settanta a salvaguardia da possibili attacchi aerei israeliani. Sono state rimosse una ventina di anni fa e oggigiorno non si sente il bisogno di ricorrere a tali precauzioni. Maggiori problemi hanno i vicini meridionali dell’Egitto. In Sudan è in corso una delle tante guerre che insanguinano l’Africa. Così poco glamour da non attirare l’attenzione di nessuno. Eppure, nel Darfur, le vittime si contano a decine di migliaia.
Nel 2023 la guerra è arrivata anche a Khartum. Da una parte le Forze Armate Sudanesi (Saf), dall’altra le Forze di Supporto Rapido (Rsf). Queste ultime hanno occupato i quartieri dove si trovava il Museo Nazionale.
La Saf ha riconquistato quest’area della capitale sudanese da poco. I video del museo che circolano in rete mostrano le sale vuote e con visibili segni di distruzione. Nelle stesse condizioni appaiono alcuni uffici in alcune fotografie circolate su internet. In un video alcuni camion caricano casse di notevoli dimensioni e si allontanano nella notte. Il commento afferma che stanno trafugando le antichità del Museo Nazionale. Il problema è quello di capire che cosa stia davvero succedendo a Khartum. Le sale vuote del museo potrebbero esserlo perché dal 2019 vi era in corso un progetto di restauro dell’edificio, finanziato proprio dalla Cooperazione Italiana allo Sviluppo. I trabattelli visibili davanti alle vetrine indurrebbero a crederlo e ci si può chiedere quale sia davvero il destino delle antichità che vi erano esposte. Accertare se siano state trafugate o siano ancora nei depositi è pressoché impossibile. Il personale delle antichità sudanesi è quasi tutto rifugiato all’estero e Khartum resta inaccessibile.
I venti di guerra non soffiano però soltanto a sud del Tropico del Cancro. Il conflitto Russia-Ucraina preoccupa i Paesi baltici. E non poco.
Nel febbraio di due anni fa, Sofia Häggmann, la collega che lavora al Medelhavsmuseet di Stoccolma, mi ha chiesto di selezionare 100 oggetti appartenenti alla locale raccolta egizia (che ne conta 8mila) da porre al riparo in caso di guerra. Il Governo svedese aveva diramato una circolare in cui si imponeva ai musei della Nazione di consegnare l’elenco entro fine marzo e Sofia era troppo impegnata per occuparsene. Il lavoro si è rivelato più difficile e faticoso del previsto. Mi ha però dato modo di riflettere sul senso generale dei musei in questo mondo fragile. A conclusione del mio lavoro a Stoccolma sono giunto alla conclusione che, per quante alternative si cerchino, l’unica soluzione per preservare il patrimonio culturale dell’umanità dai conflitti sia proprio quella di evitare le guerre.
Se ci sterminiamo a vicenda, chi visiterà i musei?
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