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Zahi Hawass

Photo: Sandro Vannini

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Zahi Hawass

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A tu per tu con Zahi Hawass

L’egittologo più famoso del mondo, già direttore generale del Consiglio Superiore delle Antichità egiziano, in occasione dell’imminente apertura a Roma della grande mostra «Tesori dei faraoni» di cui ha curato il catalogo, si racconta in una lunga conversazione con il nostro specialista

Francesco Tiradritti

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Zahi Hawass è con ogni probabilità l’egittologo più famoso al mondo e anche il più controverso. Idolatrato e contestato, amato e odiato allo stesso tempo. La sua carriera è costellata di annunci di scoperte eccezionali e promesse di ritrovamenti futuri altrettanto straordinari. Il fatto di essere stato nominato ministro delle Antichità (carica creata per lui) negli ultimi giorni dell’ex presidente Hosni Mubarak gli ha provocato aspre critiche e accuse, dalle quali è stato assolto in seguito a un processo. Ha comunque trascorso la sua carriera a proteggere e promuovere il patrimonio culturale egiziano. È vero che non ha sempre rispettato le regole dell’archeologia (chi è l’archeologo senza peccato scagli la prima cazzuola), ma ha portato cambiamenti radicali al sistema egiziano di tutela delle antichità. Nel bene e nel male Hawass non lascia comunque indifferenti e si è presentato all’intervista, che ha rilasciato in esclusiva a «Il Giornale dell’Arte» il 6 settembre scorso, con un’energia e un entusiasmo che non fanno trasparire i 78 anni compiuti lo scorso maggio. 

Dottor Hawass, non partiamo proprio dal principio ma da quando, già famoso e con importanti scoperte alle spalle, ha accettato di diventare direttore generale del Consiglio Superiore delle Antichità. Perché ha accettato una carica che, per quanto prestigiosa, l’avrebbe tenuta lontana dai cantieri di scavo?
In televisione vedevo soltanto stranieri parlare di antico Egitto. Mi ricordo di un documentario in cui il direttore dell’area archeologica della Riva Ovest di Luxor Mohammed Nasr Wahda apriva la Tomba di Nefertari a Kent Weeks e, mentre questi parlava, si limitava a reggergli la lampada. In libreria non trovavo volumi di Egittologia scritti da archeologi egiziani. La situazione mi provocava un certo fastidio e capii che era necessario cambiarla. Quando mi proposero di diventare capo delle Antichità, pensai che potesse essere l’occasione giusta. Partii dall’istruzione e inviai giovani a studiare in Europa e negli Stati Uniti. Feci poi in modo che fossero accolti dalle missioni archeologiche straniere. Diedi inizio al cambiamento cominciando a lavorare sulle persone prima che sui monumenti. 

Ha avuto difficoltà nel promuovere questo cambiamento? 
All’inizio c’era abbastanza malcontento, soprattutto tra gli stranieri, ai quali avevo imposto di retribuire gli ispettori. Lo facevano anche prima, sotto forma di mancia illegale. Ho poi aumentato i salari al personale delle Antichità per renderlo indipendente e onesto. Ero molto severo con chi non rispettava le regole e, nei nove anni in cui sono stato capo delle Antichità, sono riuscito ad azzerare la corruzione. Il sistema funzionava e, alla fine, tutti lo accettarono di buon grado. Sfortunatamente vedo che tutto questo è andato perdendosi. 

Durante il suo mandato ha lavorato molto anche per migliorare i musei egiziani.
Ho pensato che fosse meglio integrarli in un sistema. Ne ho aperti di nuovi e ammodernato quelli esistenti. Ho ampliato il Museo dell’Arte antica di Luxor, riallestito quello di Sohag e progettato il Museo dei coccodrilli a Kom Ombo. Quello dedicato ad Amarna non sono purtroppo riuscito a finirlo... Ho dato un nuovo impulso ai progetti del Museo Nazionale della Civiltà Egizia e al Grand Egyptian Museum di Giza che si inaugura ufficialmente a breve. Ho fortemente voluto i musei a Hurghada e Sharm el-Sheikh. Ritengo la creazione di questo sistema uno dei risultati più importanti ottenuti durante il mio mandato.

Ha creato questo sistema pensando agli egiziani o ai turisti che visitano l’Egitto?
Entrambe le cose. Li vedevo sia come strumenti educativi, soprattutto per i bambini, sia come un’attrazione per i turisti. Mi interessava però cambiare soprattutto la cattiva reputazione dei musei egiziani. Più di una volta, quando chiedevo la restituzione di qualche reperto, avevo ricevuto rifiuti con il pretesto che le nostre istituzioni non erano in grado di prendersene cura. L’unica risposta da dare era quella di migliorarle. Oggi abbiamo musei che tutto il mondo ci invidia.

E dopo avere abbandonato le cariche pubbliche?
Ho proseguito il mio percorso cercando di creare opportunità per i più giovani. Quando mi hanno chiesto di curare la mostra «Tesori dei faraoni», che aprirà a Roma il 24 ottobre, ho proposto di affidare l’incarico a Tareq El-Awady che lavora con me da anni.

Lei è anche uno dei più accesi sostenitori del rimpatrio della Stele di Rosetta. Quali sono le sue ragioni? 
È un monumento identitario e il suo posto è in Egitto e non al British Museum di Londra. Prima che io ne facessi richiesta era esposta in una posizione defilata e male illuminata. Soltanto al seguito delle mie richieste si sono decisi a restaurarla e ad attribuirle maggiore visibilità. 

Desidererebbe riavere indietro anche il Busto di Nefertiti che però alcuni ritengono sia falso.
Fesserie! Ho fotografie nel mio archivio che mostrano il momento del ritrovamento. L’idea che si tratti di un falso è stata creata dallo stesso scopritore Ludwig Borchardt perché si rifiutava di restituirlo.

Coperchio della bara esterna dorata di Tjuya, Dinastia 18, Il Cairo, Museo Egizio. Photo © Fotografie di Massimo Listri

E gli obelischi trasportati a Parigi, Londra e New York? Gli ultimi due addirittura alla fine del XIX secolo?
Gli obelischi di Parigi e New York versavano in pessime condizioni. Ho allora scritto ai sindaci delle due città minacciandoli che, se non fossero intervenuti, li avrei chiesti indietro. Si sono affrettati a restaurarli. Considero la questione chiusa. Non voglio impegnarmi in troppe battaglie. Voglio combatterne una e vincerla. Ora ritengo importante il rimpatrio dello Zodiaco di Dendera che un ladro francese ha staccato dal soffitto del tempio di Hathor ed è esposto al Louvre. È appropriazione indebita. Molti musei continuano a comprare reperti rubati. È un caso ancora aperto quello che ha coinvolto il Louvre Abu Dhabi. 

Alcuni curatori si giustificano dicendo che acquistano i reperti per non farli sparire nelle collezioni private. 
Tutte frottole! Quando un museo compra reperti senza accertarne la provenienza incoraggia soltanto i ladri e se ne rende complice. Quando ero capo delle Antichità nessuno comprava antichità. Avevo diramato precise istruzioni: chi le acquistava perdeva ogni diritto di lavorare in Egitto. Ora sono però tornati a fare quello che più gli pare.

Non sarebbe necessario alcun provvedimento specifico, visto che ci sono precise norme dell’Unesco a tutela dei monumenti...
Nessuno rispetta davvero i regolamenti Unesco. Prendiamo il Metropolitan Museum di New York. Hanno comprato il sarcofago dorato di Nedjemankh nel 2017 senza curarsi della provenienza. Due anni dopo lo hanno dovuto restituire. Una vera vergogna.

Gli afroamericani pretendono con sempre maggior forza di avere origini egizie. Qual è la sua opinione?
I faraoni neri di Kush hanno regnato sull’Egitto dal VII al VI secolo a.C. e non hanno perciò nulla a che fare con la civiltà egizia o la sua nascita. L’idea delle origini africane degli Egizi deriva da alcune teorie discusse molto tempo fa in una conferenza organizzata dall’Unesco. Le conclusioni dimostrarono l’infondatezza di una tale ipotesi. La civiltà egizia ha origini autoctone. La sua unicità e originalità è dimostrata dal fatto di essere stata la prima a credere in un aldilà. Questo però non piace agli afroamericani. Alcuni si sono presentati alle mie conferenze negli Stati Uniti con cartelli contro di me.

Lei è anche uno strenuo oppositore di molte delle teorie sull’origine delle piramidi.
In Italia ci sono due personaggi che hanno pubblicato un assurdo articolo privo di validità scientifica (Filippo Biondi e Corrado Malanga, Nda). Affermano di avere scoperto pilastri che scendono per centinaia di metri sotto la Piramide di Chefren utilizzando un radar tomografico. È uno strumento che raggiunge i 15 metri di profondità. Neanche gli alieni sarebbero stati in grado di scavare strutture del genere. Mi avevano invitato a partecipare a una tavola rotonda con questi due signori. Ho rifiutato perché non intendo in alcun modo attribuire loro alcun credito. Ogni teoria priva di una base scientifica nasce morta. Così è per la loro e per tutte le altre sulle piramidi che prevedono alieni o civiltà perdute.

La civiltà faraonica è stata finora descritta soprattutto da studiosi occidentali. Alcuni attivisti egiziani invocano invece una visione più indigena. 
È vero che l’immagine odierna dell’antico Egitto è una costruzione occidentale. Che però sia stata l’Europa a cominciarne lo studio è inequivocabile e non può e non potrà mai essere negato. Gli egiziani hanno cominciato da poco a dimostrare un vero interesse per la propria storia e devono recuperare il terreno perduto. Gli stranieri hanno 200 anni di vantaggio e dobbiamo loro riconoscenza. Il problema di molti studiosi egiziani è che scrivono articoli fino a raggiungere una posizione accademica e poi si fermano. È un atteggiamento sbagliato che deve cambiare. Malgrado io sia in pensione da 14 anni, continuo a pubblicare. Non lo faccio per ottenere qualcosa, ma per un desiderio di crescita personale. 

Molti l’accusano di essere troppo presente sui media.
Dicono che io lo faccia per promuovere me stesso, ma a me interessa far conoscere il mio lavoro e non m’importa poi molto se mi criticano. Chi lo fa danneggia soltanto sé stesso e mi rende più forte. Naturalmente io mi difendo, cercando però di evitare il confronto diretto. Lo ritengo una perdita di tempo. A me interessa non perdere neanche un minuto. Sia che io scavi a Saqqara o a Luxor, sia che me ne stia in ufficio a scrivere un articolo o tenga una conferenza, ho sempre un obiettivo in mente. Questo è quello che cerco di dimostrare con il mio modo di vivere. Il mio unico desiderio è avere la possibilità di imparare fino all’ultimo minuto della mia vita. 

È stato anche accusato di essere un accentratore.
È vero che posso apparire tale, ma credo nel lavoro di gruppo. Quando pubblico qualcosa non manco di menzionare i miei collaboratori. Ho sempre cercato di aiutare chi mi stava intorno. I miei migliori allievi occupano ora importanti posizioni all’interno delle Antichità egiziane e continuiamo a lavorare insieme. 

Molti italiani hanno timore a venire in Egitto a causa dell’attuale situazione palestinese.
L’Egitto è un Paese sicuro. Non c’è alcun pericolo. Parola di Zahi Hawass.

Zahi Hawass e Sandro Vannini. Photo: Sandro Vannini

Francesco Tiradritti, 16 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

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