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Tra le pietre preziose che compongono la corona imperiale di Stato britannica vi è il diamante Cullinan (Great Star of Africa)

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Tra le pietre preziose che compongono la corona imperiale di Stato britannica vi è il diamante Cullinan (Great Star of Africa)

Restituzioni postcoloniali: mancano le leggi nazionali e internazionali

I favolosi diamanti sono incastonati nei gioielli della Corona britannica, che sono beni inalienabili di proprietà del sovrano

Manlio Frigo

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Il Koh-i-Noor, estratto nel XIV secolo nell’Andhra Pradesh, veniva donato nel 1850 alla regina Vittoria dal maharaja Dulep Sing su «richiesta» del governatore britannico Lord Dalhousie. Il diamante Cullinan, Great Star of Africa, invece, fu estratto dalle miniere del Transvaal nel gennaio del 1905, venduto al governatore della regione e da questi donato nel 1907 al re Edoardo VII. Il Koh-i-Noor, già incastonato nella Queen’s Mary Crown, era stato rimosso e sostituito; mentre parti del diamante Cullinan sono incastonate nell’Imperial State Crown e nel Sovereign’s Sceptre with Cross.

Entrambi appartengono ai gioielli della Corona britannica e, benché non sottratti con la forza, sono oggetto di campagne per la restituzione in quanto considerati il frutto di appropriazioni illegittime in epoca coloniale. Nel caso del Koh-i-Noor vi era già stata qualche anno fa una richiesta di restituzione senza fortuna davanti alla Suprema Corte di Delhi; oggi le autorità indiane sembrano piuttosto puntare al coinvolgimento dell’Unesco per raggiungere un accordo con le autorità britanniche. Queste rivendicazioni si inseriscono in un più ampio dibattito sulla legittimità delle acquisizioni durante il periodo coloniale.

Secondo molti storici dell’arte, almeno l’80% del patrimonio culturale africano si troverebbe nei musei europei. Un ruolo importante va riconosciuto al celebre discorso del presidente francese Emmanuel Macron a Ouagadougou(Burkina Faso) in cui definì il colonialismo un vero crimine contro l’umanità, promettendo la restituzione «temporanea o definitiva» entro cinque anni ai Paesi africani dei beni espressioni della loro cultura presenti nelle collezioni pubbliche francesi. A tale promessa seguì la pubblicazione del rapporto Sarr-Savoy indicante le possibili tappe delle restituzioni. Una nuova consapevolezza si venne così formando nelle relazioni culturali tra i Paesi europei e le ex colonie, con l’assunzione delle responsabilità morali e giuridiche conseguenti.

Basti ricordare che le Università di Cambridge e di Aberdeen hanno restituito alla Nigeria diversi bronzi saccheggiati dalle truppe britanniche, Germania e Nigeria hanno concluso un accordo per la restituzione dei bronzi del Benin, l’Olanda ha annunciato l’intenzione di restituire oggetti prelevati dalle proprie ex colonie e l’Angola ha iniziato un negoziato con le autorità portoghesi per il recupero di oggetti sottratti durante il periodo coloniale.

Non esistono però obblighi internazionali che impongano un dovere di restituzione dei beni sottratti con la forza o in virtù di un oggettivo esercizio di supremazia. Infatti, le convenzioni internazionali relative ai conflitti armati (del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, o del 1899 e del 1907 sui costumi di guerra) non hanno effetto retroattivo. Ciò vale, naturalmente, anche per le convenzioni più recenti volte a combattere il traffico illecito di beni culturali, che impongono il divieto di acquisire beni di provenienza illecita e di restituirli a certe condizioni (Unesco del 1970, o Unidroit del 1995). E anche sul ruolo che giocano le norme nazionali del Paese nel quali i beni in questione si trovano attualmente non mancano le ombre.

In non pochi Paesi europei i beni appartenenti a collezioni pubbliche sono di proprietà demaniale e pertanto inalienabili. In molti casi, la decisione politica di restituire all’ex colonia beni oggetto di spoliazione è possibile solo a seguito dell’adozione di una legge speciale che modifichi il regime giuridico dei beni. Alcuni Paesi europei stanno adottando leggi idonee a risolvere tale problema.

Il Belgio ha approvato nel 2022 una legge quadro per il ritorno o la restituzione di beni acquisiti a partire dalla Conferenza di Berlino del 1885 fino alla data della dichiarazione di indipendenza del Paese di origine. In Francia, nelle scorse settimane Jean-Luc Martinez (ex presidente-direttore del Louvre) ha presentato una proposta per l’emanazione di una legge quadro che consentirebbe la restituzione ai Paesi d’origine dei beni presenti nelle collezioni pubbliche francesi.

Non sono invece in cantiere iniziative legislative simili nel Regno Unito, salvo la proposta di istituire una commissione nazionale per valutare le richieste di restituzione, sul modello dello Spoliation Advisory Panel for Nazi-Looted Art. Si segnala solo la pubblicazione nel 2022 da parte dell’Arts Council England delle linee guida «Restitution and Repatriation. A Practical Guide for Museums in England», che sono però prive di efficacia vincolante. A complicare il quadro si aggiunga che i diamanti in questione, in quanto parti dei gioielli della Corona, sono beni inalienabili di proprietà del sovrano.

Quali soluzioni? In assenza di un quadro giuridico univoco non c’è una risposta valida per tutte le situazioni. Soluzioni ispirate alla «diplomazia culturale» sono però sempre possibili. Un esempio è rappresentato dal prestito di cinque anni (rinnovabili sine die) dei Protocolli reali della dinastia Joseon (1392-1910) concesso dalla Francia alla Corea del Sud. Trafugati dalle truppe francesi nel 1866, sono stati «restituiti» nel 2011 e sono oggi esposti nel Museo Nazionale della Corea. Un prestito a tempo indeterminato che ha superato l’ostacolo dell’inalienabilità.

L’autore è membro del Focus Team Arte e Beni Culturali di BonelliErede

Leggi anche: Restituzioni postcoloniali: mancano musei super partes
 

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Manlio Frigo, 23 giugno 2023 | © Riproduzione riservata

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