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La parata dei faraoni svoltasi al Cairo lo scorso 3 aprile

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La parata dei faraoni svoltasi al Cairo lo scorso 3 aprile

Esporre resti umani si può

La difficoltà di conciliare l’esposizione di reperti a fini scientifico-divulgativi e la tutela della dignità: etica, diritto e ragion di stato alla prova

Manlio Frigo

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La sontuosa «parata dei Faraoni» del 3 aprile, con cui 22 mummie sono state trasferite dal Museo Egizio del Cairo al nuovo Museo Nazionale della Civiltà Egizia, al di là dell’evidente significato politico, ha riacceso un dibattito sviluppatosi negli ultimi anni e che può essere sintetizzato nella seguente domanda: entro quali limiti è giusto esporre resti umani nei musei?

Il tema non riguarda solo le mummie egizie dei musei del Cairo, ma anche quei resti umani presenti in molte altre parti del mondo, a cominciare da musei italiani quali, in particolare, il Museo Egizio di Torino o il Parco Archeologico di Pompei con riguardo ad alcuni corpi carbonizzati (i cosiddetti calchi di Pompei). Si tratta, infatti, di beni di interesse culturale, storico, scientifico, antropologico, che hanno però la peculiarità di essere appartenuti a esseri umani.

Se il tema dell’esposizione di resti umani, accanto a problemi medici, antropologici, etici, religiosi e filosofici, solleva problemi giuridici di diritto interno, la sua proiezione internazionale trova la sintesi più efficace nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui popoli autoctoni del 2007, che riconosce il diritto di ottenere dagli Stati l’uso, il controllo e la restituzione o il rimpatrio di oggetti cerimoniali e resti umani.

Ed è proprio in relazione all’ampiezza e ai limiti di tale diritto che negli ultimi anni si è rivolta l’attenzione degli «addetti ai lavori» aggiungendo un nuovo e problematico profilo di interesse. Accanto ai casi più noti del passato, celebre quello tristissimo della «Venere Ottentotta» esposta dopo la morte al Musée de l’Homme di Parigi fino al 1974 e rimpatriata in Sudafrica su richiesta del presidente Mandela solo nel 2002, in questi ultimi anni il dibattito si è acceso proprio a seguito delle numerose richieste di restituzione di resti umani da parte di comunità rappresentanti di popoli autoctoni e/o di istituzioni che ne intendono tutelare le vestigia.

È il caso delle ripetute richieste di restituzione a musei europei di teste Maori mummificate e tatuate per mantenere lo spirito del guerriero caduto in battaglia (Toi Moko), da parte di comunità australiane e neozelandesi, come il caso delle 20 teste Maori restituite dalla Francia al Museo Te Papa di Wellington nel gennaio 2012, con una cerimonia tenutasi significativamente al Musée du quai Branly di Parigi.

Negli ultimi vent’anni il tema della restituzione di resti umani a rappresentanti delle First Nations è divenuto una vera priorità per i musei e le comunità interessate, ponendo tuttavia il duplice problema della identificazione dei titolari del diritto di esigere la restituzione e di risolvere il problema della condizione giuridica del bene da restituire secondo il diritto interno del luogo in cui si trova. In simili casi, infatti, a fronte di un trend internazionale ispirato al rispetto del principio fatto proprio dalla Dichiarazione del 2007, l’ulteriore problema da risolvere consiste nella necessità di superare l’ostacolo della natura di bene di proprietà pubblica, secondo l’ordinamento del Paese in cui si trovano.

Certo, la sensibilità odierna è diversa da quella delle generazioni precedenti ma, oggi, come sono cambiate le regole giuridiche, espressione di tale mutata sensibilità? Deve prevalere l’interesse allo studio e all’esposizione di reperti archeologici a fini scientifico-divulgativi, o la tutela della dignità della persona umana? A tali domande non è possibile fornire, allo stato attuale, una risposta precisa ed esauriente. Etica, diritto e ragion di Stato procedono di rado nello stesso senso.

A dispetto dell’apparente paradosso, il tema è più vivo che mai. Nelle scorse settimane, l’University of Pennsylvania Museum of Archaeology, scusandosi per le «past unethical collecting practices», ha adottato lo Statement on Human Remains, un vero codice di condotta relativo a restituzione e sepoltura dei resti umani esposti fino allo scorso anno nella Samuel G. Morton Cranial Collection, che annovera teschi che datano dall’antico Egitto fino alla prima metà del XIX secolo.

Rimane il dubbio se l’esigenza di contrastare una curiosità antropologica nel nome del rispetto del ricongiungimento con le proprie origini valga davvero per tutte le situazioni. Alcuni anni fa, non poche critiche ha sollevato la decisione del National Museum di Auckland di trasferire nei magazzini i Toi Moko, lasciando in esposizione una mummia egizia. Al netto della «maledizione di Tutankhamon», sembra che la strada per raggiungere una posizione condivisa ed equilibrata al riguardo non sia stata ancora del tutto percorsa.
 

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Manlio Frigo, 26 maggio 2021 | © Riproduzione riservata

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