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La fotografia di Goldsmith, a sinistra, e l’intervento di Wahrol

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La fotografia di Goldsmith, a sinistra, e l’intervento di Wahrol

Quel labile confine tra «fair use» e copyright

La sentenza della Corte Suprema esplora l’intersezione tra legislazione e trasformazione artistica nel caso di Lynn Goldsmith e della fotografia di Prince replicata da Andy Warhol

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Flaminio Gualdoni

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Una volta accadde che mostrarono a Stanley Kubrick un film porno e il genio commentò con l’amico sceneggiatore Terry Southern: «Potrebbe essere grande se qualcuno facesse un film come quello però con le risorse degli Studios». Ci ho pensato perché Southern dalla vicenda prese subito lo spunto per scrivere «Blue Movie», storia in cui le situazioni correnti del porno erano filmate da un grande regista, dunque passavano automaticamente alla categoria omologata e incensurabile di «opera d’arte».

L’aneddoto mi è venuto in mente, in questi giorni, a proposito della decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti sul caso riguardante la fotografa Lynn Goldsmith (1948) e l’uso di una sua fotografia che ritrae la rockstar Prince, ripresa pari pari da Andy Warhol alla sua maniera. Che non è, dal mio punto di vista, solo una questione di copyright, ma affonda le sue radici proprio nella facoltà, a qualcuno riconosciuta, di trasformare in «opera d’arte» un soggetto nato in altro contesto.

Goldsmith è una brava, bravissima professionista della fotografia, ma è «solo» una «80s rock ’n’ roll photographer», una che frequenta un girone mediatico minore. Warhol in quel mondo peraltro sguazza e vive, è affascinato dalle star, ne fa la sua materia prima espressiva. Ma Goldsmith non è scafata come, che so, la sua quasi coetanea Annie Leibovitz, non le importa di essere promossa nella categoria della «fine art photography» ed essere considerata a sua volta un’autrice. Dunque, Warhol si ritiene autorizzato a prelevare e maneggiare la sua immagine di Prince e, con opportune coloriture, farla diventare un’opera propria.

Siamo a un confine periglioso dell’intendimento del copyright e a quello ancor più controverso del «fair use», la dottrina legale che vorrebbe stabilire i casi in cui il copyright si può non applicare. Il confine è ancor più periglioso perché Goldsmith non è considerata una fotografa dotata di facoltà autoriali e d’altro canto Warhol è Warhol, a sua volta una star, e un vampiro di immagini.

La Corte Suprema ha tenuto però in assai poco conto le rispettive qualità artistiche e si è concentrata su un punto non controverso: il copyright della foto originale e il suo possesso in termini economici da parte della fotografa. Il giudice Sonia Sotomayor, a nome della giuria, ha così motivato la decisione: «Le opere originali di Goldsmith, come quelle di altri fotografi, godono della protezione del copyright, anche nei confronti di artisti famosi. Questa protezione include il diritto di realizzare opere derivate che alterano l’originale».

Semplice, e lineare: dal punto di vista concreto, Warhol è Warhol, ma l’immagine è quella realizzata da Goldsmith, e non c’è «fair use» che tenga. Se non si usa, e abusa, del fattore del carisma artistico e ci si attiene alla nudità dei fatti, è così. Non a caso Southern scrisse «Blue Movie», ma al momento di farne un film il nome del regista che poteva trasformare in «opere d’arte» delle scene porno non venne mai fuori.

La fotografia di Goldsmith, a sinistra, e l’intervento di Wahrol

Flaminio Gualdoni, 05 luglio 2023 | © Riproduzione riservata

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