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«Pikachu» di Naoyo Kimura (1960) (un particolare) © The Pokémon Company International, s’ispira all’«Autoritratto con cappello di feltro grigio» (1887) di Vincent van Gogh

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«Pikachu» di Naoyo Kimura (1960) (un particolare) © The Pokémon Company International, s’ispira all’«Autoritratto con cappello di feltro grigio» (1887) di Vincent van Gogh

I Pokémon giovano a Van Gogh

Pikachu e compagni sono l’ultima trovata del Museo olandese

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Flaminio Gualdoni

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Alla base c’è un enunciato apodittico: «Pokémon è un’icona della cultura pop giapponese e le stampe giapponesi sono state una fonte significativa di ispirazione per Vincent van Gogh». Enunciato tanto perentoriamente vacuo da risultare, alla fine, intimamente stupido. I Pokémon hanno avuto, dal loro apparire nel 1996, uno straordinario successo e una gestione strategica e creativa oculata ha garantito loro una singolare e dilagante durata nel tempo, sino ad oggi. Ciò ha fatto sì che, secondo gli standard della cialtroneria culturale odierna, essi siano stati assunti a una dignità affine a quella di Van Gogh e le opere «pokémon» siano state rese intercambiabili, e comunque omologabili, a quelle di Vincent: «Date un’occhiata a Pikachu con un cappello di feltro grigio, Snorlax addormentato o Sunflora che fa capolino tra i girasoli nei dipinti Pokémon ispirati a Van Gogh».

È evidente che dal punto di vista del marketing l’iniziativa, che durerà al Van Gogh Museum di Amsterdam sino al 7 gennaio 2024, per i responsabili dei buffi pupazzetti non faccia una piega: tanto più che il museo, a quanto si legge, si è prostrato ai loro desideri in pressoché tutto. Mi è meno chiaro quale vantaggio possa ricavarne il museo Van Gogh, se non ospitare masse vocianti di bambini e ragazzini una piccola percentuale dei quali, si spera (secondo la retorica più bolsa che ancora qualcuno ancora fa circolare), un giorno potrebbero diventare fruitori adulti dell’istituzione.

A meno che, propendo a considerare, una caligine di stanchezza abbia annebbiato i reggitori del museo al punto da fargli compiere il gran passo definitivo, smettendo di scommettere sulla qualità del pittore, sulla sua vertiginosa grandezza e facendosi piuttosto adepti del consumo culturale più bieco, più asservito alle ragioni del soldo: visto che tutto il mondo è Paese, se la raison d’être del museo come da noi è contabilizzabile solo al botteghino, si può vendere la barzelletta di Van Gogh e non la sua pittura, magari sostituendo il suo volto con quello più familiare e «famoso» di Pikachu. Tutto ciò accade in un monumento che è una pietra miliare della coscienza moderna. Ma ora chi ci entra in rapporto non lo fa per nobilitare sé stesso e le proprie iniziative, per darsi una patina meno da palazzinaro, e piuttosto per colonizzare un pezzo ulteriore di mondo, dimostrando con sprezzo assoluto che non c’è Van Gogh che tenga, di fronte al successo planetario di un prodotto di oggi.
 

«Pikachu» di Naoyo Kimura (1960) (un particolare) © The Pokémon Company International, s’ispira all’«Autoritratto con cappello di feltro grigio» (1887) di Vincent van Gogh

«Autoritratto con cappello di feltro grigio» (1887) di Vincent van Gogh

Flaminio Gualdoni, 14 febbraio 2024 | © Riproduzione riservata

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I Pokémon giovano a Van Gogh | Flaminio Gualdoni

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