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Petrit Halilaj celebra a Dogliani il potere universale dell’infanzia

L’artista kosovaro ci racconta la genesi di Abetare (un giorno a scuola), l’opera realizzata per la seconda edizione di Radis, nata dai segni incisi su vecchi banchi si scuola dei Balcani e del Piemonte

Jenny Dogliani

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Quando la curatrice Marta Papini e l’artista Petrit Halilaj sono arrivati per la prima volta a Dogliani, cercavano un luogo che non fosse la consueta piazza o il tradizionale belvedere, ma che custodisse una storia fuori dai canoni. L’attenzione si è fermata su una scuola in disuso dagli anni Settanta, un piccolo edificio a due piani rimasto intatta con i suoi arredi e i suoi banchi fino a pochi mesi fa, quando per ragioni di sicurezza è stato demolito. La vista dei segni incisi nei vecchi e accatastati banchi di scuola ha subito evocato il lavoro di Petrit Halilaj, che da oltre un decennio raccoglie e archivia nei Balcani centinaia di disegni e scarabocchi lasciati dagli studenti di generazioni e geografie diverse. Da quell’incontro è nata Abetare (un giorno a scuola), 2025, l’opera pubblica e site specific realizzata al posto della vecchia scuola, della Borgata Valdibà, arroccata sulle Langhe di Dogliani, per la seconda edizione di Radis, il progetto di arte nello spazio pubblico ideato e sostenuto dalla Fondazione Arte CRT in collaborazione con la Fondazione CRC. I disegni provenienti dai Balcani insieme a quelli rinvenuti a Dogliani, confluiscono in una grande scultura in acciaio inossidabile patinato, fatta di tubi sottili come il segno di una matita, dando forma a un’opera che fonde linguaggi, simboli e memorie. È una celebrazione dell’infanzia e della sua dimensione ribelle e giocosa, ma anche un dialogo tra culture che, incontrandosi, creano una nuova identità collettiva nel crocevia immaginario evocato dall’opera. L’inaugurazione al pubblico si terrà domenica 5 ottobre alle ore 11,30 alla presenza dell’artista, della curatrice Marta Papini e delle istituzioni, con gli interventi di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo (Presidente della Fondazione Arte CRT), Mauro Gola (Presidente della Fondazione CRC) e Claudio Raviola (Sindaco di Dogliani). Dopo un welcome coffee presso l’azienda agricola di Marco Zabaldano, la giornata proseguirà con l’apertura della mostra collettiva «Tutto ciò che tocchi cambia. Tutto ciò che cambi, ti cambia», allestita fino a dicembre alla Chiesetta del Ritiro della Sacra Famiglia, sempre a cura di Marta Papini, con opere di Marina Abramovic, Sol Calero, Chiara Camoni, Bracha L. Ettinger, Dorothy Iannone e Nolan Oswald Dennis, a corredo della presentazione dell’opera di Petrit Halilaj (di proprietà della Fondazione Arte CRT, concessa in comodato al Comune di Dogliani). La parola all’artista.

Che cosa ti ha convinto a partecipare a un progetto come Radis a Dogliani, e che cosa hai trovato in questo incontro con il territorio?
Sono nato a Runik nel 1986, un piccolo villaggio nel Comune di Skenderaj, in Kosovo. Conosco molto bene le dinamiche e l’importanza della presenza della cultura in un territorio come questo. Nei paesi più piccoli, lontani dai grandi centri come Torino, Milano, Londra, l’arte assume un ruolo diverso, più urgente. Sono stato molto felice di questo invito anche perché negli ultimi anni mi sono trovato a lavorare su progetti molto grandi, come la personale appena inaugurata alla Hamburger Bahnhof - Nationalgalerie der Gegenwart a Berlino. Accettare di partecipare al progetto della Fondazione Arte CRT a Dogliani è stato naturale: lì ho trovato una connessione autentica con il territorio e le persone. Mi sono sentito a casa. Mi ha colpito l’idea di Marta Papini di cercare spazi non convenzionali – non piazze o rotonde – ma luoghi capaci di accogliere storie, senza monumentalità. Era un invito a regalare un racconto a chi passa, più che ad abbellire un luogo: un approccio in linea con quello che cerco da sempre.

Radis, titolo del progetto all’interno del quale hai realizzato la tua opera, in piemontese significa radici: un tema costante nella tua ricerca.
Quando ho visto insieme a Marta Papini l’ex scuola di Dogliani, chiusa dagli anni ’70, ho capito subito che lì poteva nascere qualcosa. La scuola, senza una funzione definita, poteva diventare uno spazio di riposo e riflessione accessibile a tutti. Da lì è nata l’idea di creare una continuità, un’eco di quell’edificio attraverso linee e disegni capaci di riportare storie. Abbiamo coinvolto ex studenti e un ex maestro che ci hanno portato ricordi e interviste, e ho sentito subito la forza della memoria collettiva radicata in questa piccolo quadrato di terra. Poi sono voluto andare anche nelle scuole attuali: con i bambini abbiamo fatto workshop, raccolto disegni e foto dei banchi. È stato un processo ricco di incontri e sorprese. Ho deciso di intrecciare i disegni dei Balcani, luogo delle mie radici, con quelli di Dogliani, creando un dialogo tra mondi diversi ma profondamente legati.

Nella tua vita, a volte per scelta a volte per necessità, ti sei spostato dal Kossovo, all’Italia, all’Inghilterra, a Berlino. Radici e confini hanno qualcosa in comune: entrambi definiscono un’appartenenza, ma anche una soglia da oltrepassare. Come si riflette questa ambivalenza nel tuo lavoro?
Il confine è sempre stato centrale nella mia vita e nella mia ricerca. Mi affascina guardarlo non solo da un punto di vista umano, ma anche attraverso altre prospettive, come quella degli animali migratori. Gli uccelli, per esempio, tracciano mappe diverse da quelle umane: le loro linee di migrazione non corrispondono ai nostri confini. Questo mi ha sempre colpito, perché rivela come l’idea di limite sia una costruzione. Ho vissuto entrambe le condizioni: la migrazione forzata, quando siamo stati costretti a lasciare le nostre case in Kosovo, e la migrazione scelta, quando mi sono spostato a Berlino o in Italia per studiare e seguire i miei sogni. La libertà di scegliere il proprio territorio è fondamentale. Ma mi colpisce anche l’idea del ritorno: come la rondine che, dopo aver volato fino in Africa, torna in Italia nella stessa stagione. Questo diritto al ritorno, negato oggi a tanti popoli come i palestinesi, è un tema che porto nel mio lavoro. Nei miei progetti cerco di tradurre queste riflessioni in linguaggio artistico: linee, installazioni, sculture che trasformano memorie e spostamenti in immagini universali.

Il confronto con la memoria collettiva è centrale nel tuo lavoro. Quali memorie di Dogliani hai scelto di raccogliere e trasformare in materia artistica?
Mi ha colpito la forza dei disegni raccolti nelle scuole. Vederli senza sapere da dove provengono ti fa capire che ci sono simboli universali: cuori, figure, linee che raccontano emozioni e caratteri diversi. Alcuni bambini disegnano con serenità, altri con linee nervose: sono tracce che parlano del loro stato d’animo. Mi ha colpito anche che, a differenza di altri luoghi, nei banchi di Dogliani non ho trovato disegni di armi o violenza. Ho visto invece tanta fantasia: alieni, figure fantastiche, simboli che appartengono a un immaginario comune. Questo dialogo tra i disegni dei Balcani e quelli di Dogliani crea una memoria condivisa, un terreno di incontro che travalica provenienze e storie personali.

Molti tuoi progetti nascono da processi partecipativi. In che modo gli abitanti di Dogliani hanno influenzato lo sviluppo di Radis?
Il coinvolgimento della comunità è stato fondamentale. Ex allievi ed ex maestri hanno portato testimonianze preziose; i bambini delle scuole attuali hanno partecipato a workshop di disegno, contribuendo con segni che poi sono stati trasformati e proiettati per dare forma all’opera e alla scelta delle sue dimensioni. Ho voluto che il lavoro non fosse solo mio, ma un intreccio di voci e memorie locali. In questo senso, il progetto è diventato un dono reciproco: io ho portato la mia esperienza, ma il lavoro si è nutrito profondamente della vita della comunità di Dogliani.

L’arte oggi è chiamata a confrontarsi con crisi globali: guerra, migrazioni, cambiamento climatico. Quale voce pensi che Radis aggiunga a questo dibattito?
Spero che Radis offra uno spazio di pausa e riflessione. È un lavoro che si completa solo con la presenza delle persone: quando qualcuno si siede, si arrampica, guarda o tocca, l’opera prende vita. Ogni stagione, ogni sguardo diverso, renderà il lavoro nuovo. Un padre che solleva la figlia per toccare il naso del gatto scolpito, per esempio, ha trasformato il significato del mio gesto. L’opera diventa un invito a ritrovare il bambino dentro di noi. Vorrei anche che fosse un messaggio di solidarietà: viviamo in un mondo segnato da guerre e violenze, ma i bambini restano i primi a saper tornare al gioco e alla vita, se gliene diamo la possibilità. Dedico questo lavoro ai bambini di Dogliani e del mondo intero, in particolare a quelli che oggi vivono situazioni di conflitto, come in Palestina. La scuola e l’istruzione sono la base della pace e della civiltà: il futuro sta lì, e l’arte può contribuire a ricordarcelo.

 

Jenny Dogliani, 02 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

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