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Un ricordo dell’Abkhazia fotografata da Leli Panchvidze prima del 1983, quando la regione venne isolata dai russi, sovrapposta a una fotografia di oggi

Cortesia dell’International Women in Photo Association (Iwpa)

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Un ricordo dell’Abkhazia fotografata da Leli Panchvidze prima del 1983, quando la regione venne isolata dai russi, sovrapposta a una fotografia di oggi

Cortesia dell’International Women in Photo Association (Iwpa)

«Non c’è libertà senza cultura e non c’è cultura senza libertà», dice la presidente della Georgia e invita a palazzo una fiera d’arte

Mentre Tbilisi si ribella al Governo filorusso, Salomè Zourabachvili si schiera con la popolazione con una canzone

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Anna Somers Cocks

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Una fiera d’arte è diventata l’improbabile occasione per la Presidente della Georgia, Salomè Zourabachvili, di manifestare la sua posizione in merito alla proposta di legge che obbligherebbe le Ong, le associazioni per i diritti civili e i media a registrarsi come «agenti stranieri» nel caso in cui il 20% dei loro finanziamenti provenga dall’estero. Una proposta considerata da molti autoritaria e influenzata dalla Russia. 

Il 13 aprile Zourabachvili ha organizzato nel palazzo presidenziale una festa per gli artisti, i mercanti, i curatori, i giornalisti e i Vip della fiera d’arte di Tbilisi, TAF24,  svoltasi dall’11 al 14 aprile; nel corso del ricevimento un coro maschile ha intonato un canto nell’antica e commovente polifonia della musica georgiana che man mano si è trasformato nell’Inno alla gioia di Beethoven, l’inno dell’Unione Europea. Si è trattato di una poco velata dichiarazione politica a sostegno del popolo georgiano, la cui maggioranza crede che il futuro e la libertà siano nell’Europa e protesta a gran voce contro il Governo, che vuole ingraziarsi la Russia.

Erich Schlosser, Kaha Gvelesiani e la presidente della Georgia Salomè Zourabachvili, con la guardia d’onore caucasica. Foto Anna Somers Cocks

All’apertura della fiera Zourabachvili aveva detto: «Non c’è libertà senza cultura e non c’è cultura senza libertà».  Più tardi, in privato, è andata oltre: «Senza cultura, il nostro Paese non avrebbe identità». In occasione della festa, ha conferito la medaglia d’onore a Kaha Gvelesiani, fondatore e principale finanziatore della fiera, e a Erich Schlosser, suo direttore artistico.

Qualche dato sul Paese: la Georgia (3,7 milioni di abitanti) si trova all’estremità orientale del Mar Nero, con la Russia a nord, la Turchia e l’Armenia a sud e l’Azerbaigian a sud-est. Il suo santo patrono è san Giorgio, la sua bandiera è la croce di san Giorgio con croci aggiuntive, simboli dell’orgoglio di essere la frontiera estrema della cristianità europea, il primo territorio oltre il Medio Oriente a convertirsi, 1.700 anni fa.  
 

I suoi miti nazionali sono saldi e invocati con frequenza, perché da quando la Russia l’ha incorporata nel 1801 ha dovuto lottare per mantenere la propria identità. Indipendente dal 1991, la Georgia è stata accettata come candidata per far parte dell’UE, il che le consente di sventolare la bandiera a stelle d’oro su fondo blu visibile in tutta la città. C’è tensione, tuttavia, tra un Governo che si sta avvicinando alla Russia e il popolo georgiano, convinto che il suo futuro e la sua libertà risiedano in Europa.

In questo contesto si è svolta la fiera (11-14 aprile), del cui comitato consultivo faccio parte fin dalla prima edizione del 2018.  Continuo a ritornare perché, al di là del mero piacere di essere in Georgia (vino, montagne, monasteri e canzoni) ho trovato ogni edizione un’affascinante esperienza di viaggio mentale.

I jeans sono universali e i Dunkin’ Donuts sono arrivati anche in Georgia. Questo non significa però che i georgiani la pensino come gli americani. Che cosa rivela la loro arte sui dolori e le passioni e come fa l’artista a trasformarli in qualcosa che valga la pena guardare? Molta arte è noiosa perché si sforza di inventare un significato per sé stessa. Gli artisti di successo sono costretti a produrre ininterrottamente senza avere il tempo di pensare o di sentire, così vediamo troppa arte che si occupa di cliché alla moda, come le questioni di genere, che ottengono facilmente cenni di approvazione. 

 

Levan Mekhuzla con la sua bellissima madre e il terrore dello stalinismo. Foto Anna Somers Cocks

L’arte degna di nota dovrebbe mostrarci qualcosa che non sapevamo o che non avevamo mai provato prima. «I miei figli, mi ha confidato Schlosser, vedono la democrazia in pericolo, la minaccia costituita dall’uso di armi nucleari. Vogliono sentire qualcosa e per questo abbiamo bisogno di artisti che comunichino emozioni. Molti artisti sono emotivamente morti e le fiere d’arte hanno assunto il ruolo di Duchamp nel dichiarare ciò che è arte, ma questo è pisciare sull’arte».

Ho quindi deciso di chiedere a quattro artisti presenti alla fiera di raccontarmi che cosa li abbia spinti a creare. La madre di Levan Mekhuzla, 79 anni, architetto di formazione, era Tamar Bolkvadze, una star del cinema muto e donna di straordinaria bellezza. Il lavoro di Mekhuzla è un assemblaggio di ritratti fotografici attorno a un filmato che ritrae la madre mentre balla, intorno al 1920, davanti a eleganti uomini in abito da sera. All’epoca la lingua della sua classe sociale era il francese e, data la natura nostalgica dell’arte di Mekhuzla, alla fine ci è parso normale parlare tra di noi in francese.

Mekhuzla ha descritto l’oscura realtà della loro vita. Il primo marito di sua madre fu giustiziato durante le purghe staliniane (Stalin era georgiano, ma questo non gli impedì di uccidere circa 15mila connazionali) e da bambino l’artista ha vissuto con il terrore di essere abbandonato perché i suoi genitori, temendo le irruzioni notturne della polizia, avevano sempre le valigie pronte. I temi del suo lavoro sono la storia, la paura, i ricordi di normalità in una vita tutt’altro che normale, una profonda nostalgia per un momento glorioso che lui stesso non ha mai conosciuto, ma che era stato vissuto da sua madre.

 

 

 

Nino Kvrivishvili e la sua arte, un colpo di coda del crollo dell’Urss. Foto Anna Somers Cocks

I dipinti e i tessuti di Nino Kvrivishvili, 39 anni, esposti dalla galleria Melike Bilir di Amburgo, sono meno tragici ma costituiscono comunque una testimonianza toccante di un aspetto minore di quel cambiamento epocale che è stato il crollo del comunismo. Kvrivishvili ha studiato design tessile all’Accademia d’Arte di Tbilisi; le sue opere, che a un primo sguardo sembrano richiamare le avanguardie del primo Novecento, raffigurano in realtà pezzi stilizzati di macchinari tessili, bobine e navette. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, i Paesi satelliti come la Georgia furono tagliati fuori e l’economia artificiale costruita sotto il comunismo di colpo crollò. L’intera industria tessile georgiana e i suoi 20mila dipendenti, che avevano lavorato esclusivamente per l’Urss, si ritrovarono disoccupati da un giorno all’altro.  Alcuni finirono in miseria, altri andarono in Russia, affidando ad amici valigie con i loro beni più preziosi, nella speranza di poterseli un giorno riprendere,  ma non tornarono mai più. La nonna russa di Kvrivishvili era stata una tessitrice e aveva conservato alcune di queste valigie, il cui contenuto l’artista ha recentemente esposto al Museo statale della seta di Tbilisi.

 Per una qualche coincidenza, osserva Schlosser, i tessuti sono diventati quasi il tema dellla fiera di quest’anno. Ad esempio il feltro, tradizionalmente utilizzato nel Caucaso e in Asia centrale per foderare le tende, per gli stivali e per gli abiti pesante.  Gvantsa Jishkariani, 33 anni, ha realizzato col feltro un collage da parete in cui si è autoritratta con i suoi gatti tra le piante. Jishkariani è la dinamica comproprietaria della galleria Why Not, che ha esposto alla fiera Nada di New York e alla fiera d’arte di Abu Dhabi, nonché di una galleria in un sottopassaggio di Tbilisi aperta «per abituare la gente all’idea che l’arte è per tutti». Come artista si è formata all’Accademia di Belle Arti, di cui però non condivide l’approccio tradizionale (l’unico posto dove succedevano cose interessanti, dice, era il dipartimento di fotografia) e rispetto ai due artisti precedenti è più concettuale. «Sono cresciuta con l’arte pubblica, come gli enormi mosaici e gli orrendi arazzi fatti a macchina, e quindi ne propongo un’interpretazione o una parodia», ci racconta.

Gvantsa Jishkariani davanti al suo arazzo in feltro. Foto Anna Somers Cocks

Anche Anouk Belugar, 38 anni, ha studiato all'Accademia di Belle Arti, ma a differenza di Jishkariani ha abbastanza stima dell’istituzione da continuare a frequentarla per esercitarsi nella pittura a olio tradizionale. Si tratta di un realismo socialista puro e semplice o di qualcosa di concettualmente nuovo? In ogni caso, la sua è l’opera di un bastian contrario. Anziché scrollarsi di dosso la polvere del comunismo come tutti gli altri, Belugar guarda a prima dell’Urss e scrive per una piattaforma marxista in controegemonia sugli eventi attuali. È piccola e forte e lavora sodo, ma dipinge en plein air e cammina finché non vede qualcosa che le interessa. Non ha una galleria che la rappresenti e i suoi quadri di piccolo formato erano esposti nella sezione della fiera curata da Schlosser: quattro paesaggi, con due scene dipinte a marzo di quest’anno, ispirate a La terra degli aranci tristi dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani, assassinato dalla polizia segreta israeliana nel 1972. 

La fotografia va forte nella regione ed è popolare tra il pubblico perché facilmente comprensibile. Quest’anno TAF24 ha unito le forze con l’International Women in Photo Association (Iwpa), associazione con sede a Parigi gestita dalla spagnola Arantza Aramburu Hamel, per organizzare il primo Photo Challenge per i Paesi del Partenariato orientale (Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia, Ucraina); l’obiettivo era promuovere le donne narratrici della regione e «fornire una visione delle loro narrazioni». Le vincitrici erano tutte in mostra: il primo premio è andato a una fotografa che da quando i russi, nel 2008, hanno riconosciuto la regione georgiana dell’Abkhazia come territorio indipendente (ora minacciano di appropriarsene completamente, come nel caso del Donbas in Ucraina) non può più entrare nel Paese. Leli Panchvidze, 60 anni, ha scattato le sue prime e ultime fotografie dell’Abkhazia nel 1983, con una macchina fotografica regalatale dal padre. Scrive di essere costantemente alla ricerca di luoghi che le ricordano le estati spensierate trascorse lì con la nonna e i parenti della madre. Quando ne trova uno, lo fotografa e lo mette insieme alle vecchie immagini in bianco e nero in modo da poter tornare con la mente e col cuore ai suoi cari in quella che era la loro casa.

 

Anouk Belugar, tradizionalista radicale. Foto Anna Somers Cocks

Questi quattro artisti, scelti quasi a caso, ci rivelano un fine tessuto d’idee e emozioni che integrano i grandi miti e le narrazioni del Paese. Uno potrebbe chiedersi: ma perché dovrebbe interessarmi che cosa provino gli abitanti di Paesi lontani da noi? Una delle risposte è che uno di questi Paesi potrebbe diventare di grande rilevanza per le nostre vite, come nel caso, ad esempio, dell’Ucraina. Oppure, se preferiamo essere meno utilitaristici, perché, come ci ha insegnato John Donne, nessun uomo è un’isola.  Ci si dovrebbe anche sforzare di rendere le connessioni mentali più complesse e critiche in modo da combattere la crudezza polarizzante della politica populista e le informazioni che si autoalimentano forniteci dagli algoritmi.

Fisicamente, la scena artistica di Tbilisi mi ricorda Berlino dopo la caduta del Muro, quando gli edifici fatiscenti della ex Ddr si sono riempiti di artisti e mostre spontanee fino a che la zona si è imborghesita ed è diventata troppo costosa per loro. Oggi la vecchia Tbilisi è piena di gallerie. Da quando, sei anni fa, la fiera d’arte ha fornito un palcoscenico agli artisti, che sono numerosi grazie alla formazione artistica istituita sotto il sistema sovietico, la scena artistica si è sviluppata velocemente.  Alla TAF è possibile acquistare un’opera d’arte di buon livello a meno di 5mila euro, un prezzo a cui si può scegliere quel che piace, senza dover tenere in considerazione l’eventuale valore di rivendita. Che in ogni caso potrebbe decollare: il gallerista Thaddaeus Ropac mi ha detto infatti di essere sempre interessato agli artisti che provengono da Paesi in cui ci sono Accademie di Belle Arti, intendendo quelle dell’ex blocco orientale che ancora insegnano la tecnica. Dopo tutto, ha trovato Adrian Ghenie, uno degli artisti oggi più quotati, a Cluj-Napoca, capoluogo della Transilvania, in Romania.

Tutto considerato, è incoraggiante che la Banca della Georgia, che garantisce il valore economico del Paese, e la Presidente del Paese abbiano entrambi dato il loro sostegno a questa piccola ma affascinante fiera, che è più di un semplice evento commerciale. Come mi ha detto Levan Mekhuzla, nato nell’ultimo anno della dittatura staliniana, «­­­­è straordinario quello che può accadere nella cultura non appena c’è anche solo un po’ di libertà».

 

Anna Somers Cocks, 03 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

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