Michela Moro
Leggi i suoi articoli«Non posso non fare il lavoro che faccio, dice la scultrice Maria Cristina Carlini, è stato difficile, soprattutto agli inizi, ma ho bisogno di comunicare con il mondo e non posso che farlo attraverso la scultura, la mia arte è emotiva ed è il mio linguaggio». La perseverante scultrice, con passato da avvocato «non ero adatta», è la protagonista del film «Il coraggio della grandezza» di Pino Farinotti e Tiziano Sossi (60 minuti), che sarà proiettato venerdì 18 ottobre alle 19 nella Sala Meet Theater del MEET Digital Culture Center in viale Vittorio Veneto 2 a Milano. Un percorso in compagnia di critici e amici che illustra come Carlini non si sia lasciata scoraggiare, anzi, abbia continuato affrontando nella maturità artistica sculture sempre più imponenti. Il film lascia intuire una vita movimentata, complessa e articolata propria della buona borghesia di un tempo. Malgrado la passione artistica fosse già ben presente, la Carlini affronta prima gli studi classici e poi la laurea in legge, certa che la famiglia non avrebbe potuto capire altro come formazione. Segue il marito per un dottorato a Stanford e lì viene catapultata in un mondo in fermento: erano gli anni del Vietnam, della libertà e della partecipazione e, per l’artista, della scoperta. Con un’amica giapponese partecipa al primo corso di ceramica, che è una rivelazione. L’amore per il forno, plasmare e cuocere la materia diventano una passione che non l’abbandonerà più. Trova a Palo Alto una fornace che cuoceva con alte temperature e le si apre un mondo «sopra i mille gradi». Un’altra amicizia del tempo racconta di come la Carlini fosse da subito in sintonia con la materia e di come fosse evidente anche il suo talento.
«Cerco l’essenza lavorando la terra, non posso farne a meno» dice, e regina della materia scopre nel tempo il grès, il ferro, il legno, l’acciaio corten, i materiali di recupero e la possibilità di rendere monumentali le proprie opere, oggi installate dovunque, dall’America alla Cina, senza ovviamente tralasciare Milano. Le sue opere monumentali hanno sempre una grande capacità di dialogo con il contesto, siano di fronte a un palazzo settecentesco come a un edificio contemporaneo o il centro di una piazza; del resto Carlini si sente molto vicina all’architettura e lontana dall’arte concettuale. Dal film emerge una personalità forte e ben radicata nel proprio contesto, una donna che ha conosciuto il femminismo e che non capisce perché i complimenti debbano includere che il suo lavoro sembri quello di un uomo. Il ritratto si compone attraverso le conversazioni dell’artista con curatori, storici dell’arte, vecchi amici e familiari, tra i quali Paola Albini della Fondazione Albini e Bruto Pomodoro dell’Archivio Giò Pomodoro. Con la prima ribadisce la vicinanza all’approccio teorico di Franco Albini, e con Pomodoro è l’incontro di due modi di praticare la scultura. Lo studio dell’artista è un altro dei protagonisti del film: attraverso le opere viste nel contesto in cui nascono, siano gli altissimi totem, le fragili scale o gli innumerevoli vasi, si è catapultati in un mondo affascinante di cui si vorrebbe sapere di più. Il colore non è mai applicato, ma sempre intrinseco nella materia, parte del potenziale espressivo. «Non disegno, le mie ispirazioni partono dal comporre, ma non è mai facile: più hai fantasia e più devi ragionare e riflettere». La sicurezza e la tranquillità con cui questa donna minuta parla della propria pratica davanti a opere monumentali saranno d’aiuto ai giovani artisti contemporanei. «Volevo essere Kiefer, poi ho capito che non lo ero. Tu sei tu e devi accettarti come sei. È una ricerca interiore che diventa anche quella di altri, un lato oscuro che emerge ed è per questo che ne vale la pena», com’è lei, concreta e complessa, capace di prendere a martellate dei gran pezzi di ferro e di vedere nell’arte la trascendenza.
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