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Redazione
Leggi i suoi articoliA prima vista, il percorso che la Mnuchin Gallery dedica a Franz Kline (sino al 21 giugno) potrebbe sembrare un tributo già visto: quindici opere su tela degli anni ’50, qualche disegno, prestiti prestigiosi e un catalogo autorevole. Eppure, dietro questa apparenza istituzionale, la mostra tenta a forzare una rilettura critica dell’artista, sfuggendo alla caricatura ormai consolidata dell’«uomo del nero su bianco». La selezione di lavori esposti, sostenuta da prestiti del MoMA, del Guggenheim e del Glenstone Museum, è costruita con rigore, ma ciò che distingue questo progetto è l’intento di complicare la ricezione univoca dell’opera di Kline. Dipinti come «Light Mechanic» (1960) fanno emergere la presenza persistente del colore nella sua ricerca, laddove la narrazione canonica lo aveva relegato all’ascetismo grafico. Toni e stratificazioni cromatiche smentiscono la dicotomia troppo comoda tra bianco e nero, proponendo invece una lettura più sottile della sua sensibilità pittorica. «Ocra pallide e creme calde stratificate all’interno e sotto le sue pennellate, testimoniano la costante sensibilità di Kline al tono e al calore. Anche nelle sue composizioni dall’aspetto più austero, sottili gradazioni di tonalità complicano il consueto binomio [bianco e nero], rivelando un artista in sintonia con la risonanza emotiva anche del più lieve cambiamento di valore», sottolineano dalla galleria.
In questo senso, il percorso si confronta con un nodo critico tutt’altro che risolto: Kline è stato un maestro della forma o un espressionista del gesto? Le tele selezionate non forniscono risposte definitive, ma semmai riattivano la tensione tra struttura e spontaneità che definisce la sua opera. L’astrazione, in Kline, non è un rifiuto della realtà, ma una compressione emotiva, spesso filtrata da titoli che rimandano a luoghi, persone e memorie personali. Una soggettività compressa, ma mai annullata. Il catalogo, con testi di Carter Ratcliff e Robert Mattison, quest'ultimo il più grande esperto del maestro americano, aggiunge ulteriore profondità. Ratcliff restituisce il contesto critico americano con la consueta lucidità, mentre Mattison cerca di aggiornare il discorso storico. Resta tuttavia il dubbio se il dispositivo curatoriale riesca davvero a spostare l’asse interpretativo: quanto ancora è possibile scardinare l’icona Kline dal suo piedistallo mitico senza ricadere nel déjà-vu del revisionismo? La mostra compie un gesto necessario: restituisce a Kline la sua complessità, rifiutando la cristallizzazione di un linguaggio che, proprio perché iconico, rischiava di essere svuotato. Dalla galleria arriva un invito a guardare di nuovo ciò che credevamo di conoscere.
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