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Un ritratto di Stefano Levi della Torre

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Un ritratto di Stefano Levi della Torre

Levi della Torre: «La bellezza è possibilità»

Intervista allo scrittore, pittore e saggista. «Il fondamentalismo è un’operazione blasfema perché sostiene che la propria interpretazione sia autorevole e, essendo l’unica valida, possa sostituire e destituire il testo. Il fondamentalismo è una forma idolatrica di sé stessi»

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Franco Fanelli

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«Faccio sempre il mestiere di qualcun altro», ironizza Stefano Levi della Torre quando si parla della sua poliedricità di «intellettuale irregolare», come lo ha definito lo scrittore e giornalista Franco Marcoaldi. Nato a Torino nel 1942, laureatosi in architettura a Milano, la città dove vive e dove ha insegnato al Politecnico, è scrittore, pittore e saggista. Discendente «da una famiglia ebraica piemontese di tradizioni laiche e socialiste-liberali di matrice gobettiana», è noto al pubblico radiofonico per le sue partecipazioni alla trasmissione Rai di Radio 3 «Uomini e profeti».

La sua bibliografia spazia da studi di Ebraismo a saggi su Dante Alighieri, dalla storia dell’arte a temi legati alla spiritualità. Nel 1992 è stato invitato alla «Cattedra dei non credenti», la serie di 50 incontri organizzati dal cardinale Carlo Maria Martini sui temi della fede. «Laicità, grazie a Dio» (Einaudi, 2012) è uno dei suoi saggi più conosciuti.

Inevitabilmente l’incontro con Stefano Levi Della Torre si apre commentando quanto sta accadendo con il nuovo conflitto israelo-palestinese. «Da Gaza, Hamas ha aggredito Israele, e dunque prima di tutto solidarietà con Israele, dichiara. Hamas è un’organizzazione militare fondamentalista sunnita che rientra nel gioco politico del regime sciita dell’Iran. Ha per programma esplicito la distruzione di Israele e il genocidio degli ebrei. Il fallimento tragico di Israele in questa terribile occasione non è dovuto solo a un’inaspettata imperizia tecnica e militare del governo di estrema destra di Netanyahu, ma al fatto che in Israele si è diffusa per decenni l’opinione che la questione palestinese fosse ormai domata e ininfluente, che un processo di pace riguardasse solo gli accordi con i regimi come l’Arabia Saudita.

Invece che tentare un compromesso con i movimenti palestinesi laici in opposizione ai fondamentalismi, i governi di Israele hanno preferito perpetuare ed estendere per decenni l’occupazione dei territori palestinesi, e hanno finito per offrire la questione irrisolta ai fondamentalismi. Con il suo provvisorio e barbaro successo, ora Hamas punta a farsi riferimento egemone della esasperazione palestinese e islamista, incancrenita dalla politica israeliana di occupazione. Così Hamas assurge a essere, appoggiata dall’Iran, tra i protagonisti nei conflitti in corso. La speranza è che Israele cambi strada e assuma le sue responsabilità sulla questione palestinese, ma ciò è molto difficile perché la situazione è incancrenita dentro lo stesso Israele».

In quale momento della sua vita si è dedicato allo studio dell’Ebraismo?
In gioventù consideravo organico il fatto di essere ebreo e di essere di sinistra, anche perché la sinistra aveva protetto, con la Resistenza, gli ebrei dalla persecuzione. Negli anni Ottanta, tuttavia, è subentrata quella che ho definito una depressione postmessianica della sinistra, nel senso che tutte le aspirazioni si infrangevano di fronte al fallimento del Comunismo. Fu allora che mi chiesi: «Sono ebreo perché? Solo per il passato?». Mi sono domandato che cosa fosse effettivamente l’Ebraismo, cioè che cosa fosse una tradizione così duratura, di fronte alla contingenza di certi fallimenti politici. Quindi studiai intensamente che cosa fosse l’Ebraismo per stabilire se aderirvi o non aderirvi.

Naturalmente questo si incrociava con una polemica sulla politica di Israele nei confronti dei palestinesi. Agli inizi degli anni Ottanta ci sono state cose terribili come i massacri di Sabra e Shatila e quindi studiando l’Ebraismo mi sono cacciato anche nella polemica intra-ebraica però mi interessava anche il motivo della durata e così mi sono posto l’interrogativo: «Accetto o non accetto questa tradizione? Che cosa accetto?». Mentre prima mi sembrava che fosse un distratto privilegio il fatto di appartenere a una minoranza «bella di fama e di sventura», mi trovai immerso nelle polemiche dottrinarie e politiche tipiche di questo gruppo umano.

Tutto ciò ha influito sulla sua ricerca pittorica?
Anche per suo zio, Carlo Levi, la scrittura si intersecava con la pittura. Mi sono dedicato agli studi sull’Ebraismo quando già cercavo di fare il pittore. Ho sempre creduto che per me la pittura fosse quella che guidava il pensiero e non viceversa, cioè che questo rapporto non tanto facile col mondo del «dare forma» fosse quello che formava il mio modo di pensare.

Lei ha detto che la pittura figurativa non può che essere un’interpretazione deformata della realtà. Che cosa significa?
C’è un testo fisso, che si chiama Torah, e intorno a questo testo ci sono infinite interpretazioni, nessuna di esse esaurisce il testo. Questo mi sembra abbastanza simile a quello che fa un pittore rispetto a quello che percepisce, è un’interpretazione parziale di qualcosa che non potrai mai raggiungere fino in fondo. Quello che tu percepisci è solo una faccia del mondo rivolta verso di te, non è il mondo, però è una stanza di ingresso verso il mondo. In questo senso è parziale e non può che essere deformazione perché non coglie la totalità, solo allude a una totalità che si vede da una delle porte di ingresso, quella riservata a me, come direbbe Kafka.

Lei ha definito la bellezza «una possibilità». L’arte produce possibilità?
Anche se dipingo soggetti molto «tranquilli» (ritratti, nature morte, interni, animali, paesaggi, Ndr), delineo una possibilità del mondo, cioè il mondo non è un dato scontato, è un dato che sento come qualcosa che va al di là di me stesso, in cui sono immerso e di cui faccio parte, che mi soverchia ma tuttavia ne faccio parte. Io ne realizzo una possibilità, dico a me stesso e ad altri che questa è una delle possibilità del mondo di fianco a infinite altre possibilità interpretative. Soltanto i fondamentalisti credono che la loro interpretazione esaurisca il testo per cui pensano una cosa terribile, cioè che la loro interpretazione possa sostituire il testo. Il fondamentalismo è un’operazione tendenzialmente blasfema perché sostiene che la propria interpretazione sia autorevole e, essendo l’unica valida, possa sostituire e destituire il testo. Il fondamentalismo è una forma idolatrica di sé stessi.

Continuo a citare dai suoi testi: «La bellezza non è un rifiuto della materia e dell’utile per farsi spirito, è piuttosto la trasfigurazione dei sensi per farsi senso».
Queste parole sembrano in contrasto con un’epoca che anche nell’arte privilegia l’immaterialità, la digitalità… Penso che la tattilità e l’uso dei cinque e più sensi sia di una complessità basilare. Magritte ha fatto almeno una cosa di intelligenza notevole con il dipinto «Ceci n’est pas une pipe». Nell’invasione delle immagini cui assistiamo tutto è pipa. Viene eliminata la differenza tra la cosa e la sua rappresentazione. Penso che la resistenza opposta dal mezzo, quella resistenza che noi incontriamo dovendo lavorare sulla materia, sia una cosa che non soltanto dia delle idee ma che sia essenziale per non confondersi tra rappresentazione e cosa.

Gli artisti, come gli scienziati, possono incarnare la figura profetica in senso biblico, cioè colui, per usare ancora le sue parole, che «indica la breccia possibile nelle tendenze che se continuate portano alla rovina»?
Penso di sì. Quella della breccia mi sembra propria di tutte le attività del pensiero di costruzione. 

Che cosa ha scoperto in Caravaggio?
Mi piace il suo rapporto tra l’indeterminato e il determinatissimo, le figure che si dissolvono nell’ombra sono qualcosa di abbastanza simile a una cosa che mi piace anche di Michelangelo, cioè il fatto di rappresentare una cosa che nasce dal sasso, quel non finito che credo che fosse abbondantemente voluto. Lui era rimasto affascinato dal non finito dei reperti archeologici, dal Torso del Belvedere, dal frammento che invece di parlarti del creato ti parla della creazione. Il mio saggio su Caravaggio si intitolava infatti Enigma dell’evidenza. In lui l’evidenza è tutt’altro che chiara e lo rappresenta anche scenograficamente.

Nella «Cena in Emmaus» c’è il personaggio che rappresenta la persona comune, che rimane stupefatto di come si comportano questi avventori, Gesù e i suoi discepoli, mentre i discepoli sono molto stupiti di vedere un’altra cosa rispetto a quello che sta vedendo l’oste. Questa è rappresentazione scenica di quello che Caravaggio sta dicendo, cioè del fatto che la banalità di tre avventori un un’osteria diventa miracolo. C’è una sua evoluzione in questa direzione che trovo molto interessante, cioè trovare lo straordinario nel banale. Mi piaceva questo rappresentare il miracolo come una cosa incarnata. questo enigma dell’evidenza ed enigma della banalità.

Lei è stato penalizzato, in una società iperspecialistica come la nostra, dal suo incarnare molte figure in una?
Mi si può rinfacciare di essere un dilettante in tutte le cose che faccio. Da una parte mi trovo molto esposto, dall’altra ho scoperto che la mia ignoranza è una grande ispiratrice. L’ignorante non professionalizzato si inventa cose che a un professionista non verrebbero mai in mente perché non è deontologico per un professionista fare certe cose grazie alla quali a me, al contrario, pare di aver prodotto alcune interpretazioni abbastanza originali.

Quello che io penso, e che ho cercato di dire in un ultimo mio libretto che si intitola Dio, lo penso molto secondo la trasversalità. In questo testo scrivo che Dio come idea è stato per millenni la chiave di volta dell’unità del pensiero, mentre ora abbiamo difficoltà ad avere quelle chiavi. Si può credere o non credere, però il riferimento all’idea di Dio come punto convergente di tutte le realtà variegate del mondo ha avuto una funzione formidabile di possibilità di trasversalità. La specializzazione ha corroso questa chiave di volta.

Il non credere in Dio può essere un vantaggio nel nostro rapporti con la vita?
Non penso che quelli che credono in Dio siano necessariamente meno liberi di me. Possono essere molto liberi perché esiste una dialettica tra la certezza e la libertà, che non è eliminabile. C’è una frase, mi pare, di Cioran che diceva: «Un poeta è un avventuriero che se ne sta in pantofole». A me piaceva questa cosa. Però la domanda che dentro di me ne seguiva era questa: «Ma grazie alle pantofole o malgrado le pantofole?». In gran parte è grazie alle pantofole, ma in parte è anche malgrado le pantofole. Se Odisseo non avesse avuto il chiodo fisso di Itaca, non avrebbe mai vissuto le sue avventure. Cioè, il fatto di essere credenti in Dio e quindi in un certo senso vincolati, è una cosa che però ti dà la sicurezza che tu hai una tua Itaca, cosa che ti consente di vivere le tue avventure.
 

Un ritratto di Stefano Levi della Torre

Franco Fanelli, 11 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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Levi della Torre: «La bellezza è possibilità» | Franco Fanelli

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