Guardiano delle porte delle antiche città, raffigurato con due facce, una rivolta allo spazio urbano, l’altra alla campagna circostante, Giano (detto appunto «Bifronte») è la divinità che nel pantheon romano incarna il tema della dualità, del «doppio» in senso fisico e metaforico. Gli Etruschi, che gli attribuivano la stessa simbologia liminare, lo chiamavano Culsans e a lui è dedicata la mostra «Giano-Culsans: il doppio e l’ispirazione etrusca di Gino Severini» (curata da Sergio Angori, Paolo Bruschetti e Giulio Paolucci, da un’idea di Giovanna Forlanelli) presentata dal 15 maggio al 15 settembre dalla Fondazione Luigi Rovati di Milano, nello Spazio Bianco del piano nobile.
Piccola e preziosa, la mostra intreccia all’indagine del tema stimolante della duplicità quello della fascinazione esercitata dall’arte etrusca su un maestro delle avanguardie primonovecentesche come Gino Severini (1883-1966). Lui, che visse a Parigi sin dal 1906 e che a Parigi morì, era nato a Cortona e lì tornò sempre più spesso nei suoi ultimi anni, tanto che nel 1963 volle donare all’Accademia Etrusca della città, che amava frequentare, un nucleo di sue opere che permise al Comune di Cortona d’inaugurare, nel Museo dell’Accademia (Maec), la «Sala Gino Severini».
La mostra milanese scaturisce da questa duplice scintilla e ruota intorno ai due bronzetti votivi etruschi di «Culsans» e «Selvans», giunti dal Maec, la cui identità, come quella del dedicante, è indicata dall’iscrizione che corre lungo la loro coscia. A questi sono accostati il «Giano Bifronte» (primi anni ’60) in bronzo di Gino Severini e una fusione postuma, di maggiori dimensioni, realizzata per volontà della figlia Romana Severini e da lei donata all’Accademia Etrusca di Cortona. Insieme, il dipinto «Natura morta con aringa e compostiera blu», 1946-1947, in cui Severini affronta un tema tipico del Cubismo (dopo la stagione futurista ne fu un esponente di primo piano) inserendo nella composizione del vasellame in bucchero, lo stesso usato nei banchetti dell’aristocrazia etrusca.
Ma fra gli artisti attivi dal primo ’900, non fu soltanto lui, cortonese e dunque «etrusco», a subire la seduzione di quella cultura lungamente considerata minoritaria rispetto alla greco-romana: si verificò infatti in quegli anni una congiuntura felice perché, mentre gli scavi restituivano sempre nuovi tesori etruschi, nelle avanguardie cresceva la volontà di esplorare i codici di arti «altre», dall’Africa all’Oceania, alle culture arcaiche del Mediterraneo. Oltre a Severini (ce lo insegna Martina Corgnati nel suo libro L’ombra lunga degli etruschi. Echi e suggestioni nell’arte del Novecento, Johan & Levi, Milano, 2018), c’è infatti un drappello di grandi autori del secolo scorso che subirono la malìa di quel popolo allora ancora immerso in un’aura di antichità favolosa, irrecuperabile: come il grandissimo Arturo Martini (1889-1947: «mi son el vero etrusco»), lui veneto di Treviso, che guardando all’arte etrusca seppe creare autentici capolavori della modernità. C’è poi l’udinese di nascita Mirko (Basaldella, 1910-1969), con le sue ruggenti «Chimere»; c’è l’«apolide» Massimo Campigli (1895-1971), nei cui dipinti spira una palpabile brezza etrusca; c’è Marino Marini (1901-1980) che, da pistoiese, dichiarava a buon diritto «io mi considero un discendente degli Etruschi», ed Henry Moore (1898-1986) con le sue «Reclining Figures», fino a Michelangelo Pistoletto (1933), che ha reso omaggio all’«Arringatore» tardo-etrusco del Museo Archeologico di Firenze, e a Mimmo Paladino (1948), il cui amore per le tradizioni arcaiche del Sannio si fonde con la fascinazione esercitata su di lui dalle necropoli etrusche, tante volte visitate.